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martedì 1 novembre 2022

RIFLESSIONI - … MA COS’ E’ ‘STO RAZZISMO?

 Flavio Impelluso                                                           Novembre 2022

Forse ricorderete che sull’argomento mi ero già soffermato commentando la riedizione del film su Arsenio Lupin, ma alcuni dei vostri commenti mi inducono a riprenderlo in considerazione, magari con un taglio diverso: mettetevi comodi, questa riflessione è un po’ … più lunga di altre!

Partendo dalla definizione delle enciclopedie, e cioè che il razzismo è “quel fenomeno di presunta superiorità di una razza (poi sulla razza ci torno, promesso) nei confronti di un’altra, basando spesso tale superiorità sulle caratteristiche somatiche delle diverse etnie”, nei nostri giorni assistiamo ad una forte presa di coscienza nei suoi confronti, probabilmente per una maggior sensibilità collettiva e forse anche perché come argomento è politicamente trainante.

Certi settori più radicali hanno abbracciato l’idea che il razzismo sia un fenomeno a sé stante, il male assoluto, e certo esaminandone gli effetti nel tempo non possiamo nasconderci che in molte circostanze l’umanità ha perso il diritto di chiamarsi tale.

Ma io non credo che il razzismo sia un fenomeno a sé, credo invece sia uno degli aspetti di un fenomeno molto più ampio ed antico, quello della spinta degli uomini alla sopraffazione nei confronti degli “altri”: la propensione a discriminare i diversi (siano essi popoli, culture, caratteristiche somatiche, classi sociali, religioni e così via) è vecchia quanto il mondo, c’era sicuramente ancor prima di averne notizie storiche.

Per quanto ne sappiamo, questa faccenda della presunta superiorità era applicata da tutti contro tutti: tanto per rimanere in un quadro storico-geografico a noi più familiare, i babilonesi e gli egiziani ritenevano gli ebrei inferiori e ne disponevano quasi a loro piacimento (e infatti quando gli girava ne deportavano in massa intere popolazioni), i greci si ritenevano superiori a tutti gli altri popoli che per loro erano “oi barbaròi”, cioè quelli che non sapevano neppure parlare decentemente la lingua (quella greca, è chiaro).

I romani poi ritenevano celti, germani e britanni dei bruti selvaggi, e vedete bene che il fatto del colore della pelle non era dirimente, perché alla fine erano tutti bianchi.  E poiché all’epoca “questi diversi da loro” erano in gran parte anche più deboli, appena potevano li sottomettevano e li schiavizzavano.

Tanto per essere chiari, questo non è un tentativo di derubricare il razzismo da “male assoluto”, come qualcuno vorrebbe, o di mimetizzarlo tra le tante forme della violenza umana: vorrei solo inquadrarlo in un contesto più ampio e meno ideologico, storicamente più razionale.

 Attualmente sembra che il nocciolo del razzismo sia il rapporto tra bianchi e neri,  U.S.A. in primis, ma anche ad una analisi molto superficiale ci si rende conto che queste tensioni sono presenti tra maggioranze e minoranze in tanti altri Paesi, quasi ovunque dove convivano diverse etnie, o religioni, o qualsiasi altro fattore che possa dividere.

Un esempio: nell’Agosto del 2017, alla ricorrenza del 70° anno della “partizione” del territorio tra India e Pakistan, la stampa inglese ha ricordato con favore la scelta di Mountbatten, commentando che “altrimenti c’era il rischio di non trovare più un indiano vivo!”. Un’iperbole giornalistica, certo, ma non del tutto: gli scontri di quei mesi, sino a quando la partizione non fu completata, costarono un milione di morti! Eppure erano tutti indiani: ma c’era il piccolo particolare che alcuni erano induisti ed altri musulmani.

E siccome la storia non fa sconti a nessuno, altro esempio, ma di diverso colore: negli anni ’90 dello scorso secolo, in Ruanda, Utu e Tutsi si scontrano in una terribile guerra interetnica: un altro milione di morti, forse di più. Eppure erano tutti neri. Cosa voglio dire: sembra talvolta che ci sia uno specifico interesse a convogliare l’attenzione dell’opinione pubblica esclusivamente sulle tensioni tra bianchi e neri, a me sembra che la realtà sia molto più diversificata e complessa.

Ma torniamo alla faccenda della razza: è vero che, con l’estinzione dei Neanderthal - che però ha lasciato tracce del suo genoma nel nostro - il Sapiens rimane l’unico rappresentante umano sulla terra, quindi scientificamente il concetto che non esistono “le” razze, ma solo “la” razza umana, è corretto. Siamo tutti Sapiens.

Però è anche vero che da migliaia di anni la più immediata suddivisione   identificativa degli uomini si basava sul colore della pelle, o sulla lingua, o  su altre caratteristiche somatiche più evidenti, e anche se al momento il discorso è tabù, credo che anche il più fanatico dei crociati dello slogan “le razze non esistono” si rende conto che nella realtà – chiamiamole come vogliamo – le suddivisione umane in forme diverse esistono; e sa anche, il suddetto fanatico  (a meno che volontariamente non si copra gli occhi) che oggi il suo messaggio è più uno slogan ideologico,  o una lodevole aspirazione, che una realtà.

E che ci sia ancora un mare tra lo slogan e la realtà è presto dimostrato: sarà pure vero, scientificamente parlando, che le razze non esistono, però chi afferma che un boscimano del Kalahari ed un abitante di Copenaghen sono uguali è uno sciocco, oppure è un missionario che sta parlando di anime, oppure ancora è un politicante. Questi due umani dell’esempio non hanno nulla di uguale, il bello è che paradossalmente l’aspetto esteriore sarebbe il meno, è tutto il resto che li distingue nella vita, vivono in due contesti così differenti che è come se fossero su pianeti diversi, sono uguali solo per il fatto che tutti e due sono nati da donna e tutti e due moriranno: cioè appartengono tutti e due al genere umano.

Il perché sia così non lo conosco, e personalmente non credo nella superiorità di un gruppo umano (provo ad usarlo come sinonimo di razza) su un altro, credo però – perché me lo narra la storia – che i vari gruppi abbiano avuto diversi sviluppi evolutivi.

Ricorro come al solito ad un esempio per spiegarmi meglio: 5 mila anni fa, in Africa c’era (c’è ancora, tranquilli) una larga fetta longitudinale di territorio che seguiva il percorso di un grande fiume, il Nilo. Nella parte nord, verso il mare, questo territorio si chiamava Egitto, ed era abitato da un popolo che tra l’altro costruiva piramidi, cioè i più grandi monumenti mai eretti dall’uomo, mentre più a sud il territorio si chiamava Nubia, abitato da popoli che erano all’età della pietra. Il popolo più evoluto sottomise l’altro, e ne ha fatto per millenni la sua riserva personale di schiavi: poi di questa riserva umana hanno usufruito i romani, poi gli arabi e più recentemente spagnoli ed anglo-sassoni.

Ma quando affronti l’argomento in questi termini terra terra (ma reali) ti prendi subito del razzista, e con ciò l’interlocutore crede di aver chiuso il discorso: non è così, non può essere semplicemente così.

Perché l’esempio posto non serviva a giustificare le vessazioni dei popoli più progrediti su quelli meno progrediti, voleva solo riferirsi a quanto storicamente avvenuto (cioè alla realtà dei fatti) e porre un quesito: confrontando quello con un regolo in mano perché aveva appena costruito una piramide, e quello che aveva in mano un’ascia con la testa di selce, possiamo affermare che il primo era di qualche gradino più su nella scala dell’evoluzione dei popoli rispetto al secondo? Stiamo asserendo una banale realtà, o chi lo sostiene è sempre e comunque razzista?

Quella abissale differenza non poteva dipendere dal fatto che tutti quelli a nord erano intelligenti e quelli a sud erano stupidi, evidentemente in natura ci sono dei meccanismi evolutivi che hanno privilegiato alcune aree rispetto ad altre: per millenni si sono trovati parecchi gradini più su le popolazioni con la pelle chiara, e non so perché, magari in futuro avverrà il sorpasso di quelli più scuri su quella benedetta scala. A meno che alla fine non prevalga un colore intermedio, e non ci sarà più questo problema. Ma non preoccupiamoci, tanto l’umanità, per farsi la guerra, troverà sempre una buona (!) ragione.

In attesa di un auspicabile maggior livellamento, che comunque non sarà mai totale (Orwell docet), che possiamo fare per aiutare questo processo? Non lo so, è una cosa troppo grande e non alla mia portata, mi viene in mente solo un processo di lenta e contrastata inclusione, che sarà osteggiato sia da quelli che non ci pensano proprio a condividere con altri quello che ritengono appartenere solo a loro, sia dai razzisti tout court, quelli del “colore della pelle”.

Quanto ad alcuni slogan correnti, non credo che tentare di imporre al mondo il termine nero invece di negro risolva qualcosa in concreto: se mi perdonate l’accostamento, mi ricorda il ’68 con i suoi discorsi sulla “dignità del lavoratore”, quando ritenevamo di risolvere un grosso problema sociale elevando gli addetti alle pulizie al rango di “operatore ecologico”. Mah…

Quanto agli altri, quelli che tirano giù le statue e imbrattano certi monumenti, che dire? Mi sembrano un po’ i nostri liceali, quando finiscono le occupazioni di rito e lasciano fieramente le scuole, sconciate da scritte rivoluzionarie.

Cresceranno, e capiranno anche loro che tanto, nel bene o nel male, la storia è stata fatta da quelli effigiati nelle statue che stanno distruggendo. Credo sia meglio cercare di lavorare sulla storia presente e futura invece che tentare di cambiare (a posteriori: che follia!) la passata.

E qui chiuderei il discorso, ma  … MA SE AVETE ANCORA UN PO’ DI PAZIENZA…

Ecco, se avete ancora un po’ di pazienza, rimaniamo nei dintorni dell’argomento “razza” per approfondirne alcuni aspetti. Secondo gli esperti la razza umana ha assunto nel tempo forme alquanto diverse per tutta una serie di fattori esogeni - quali l’irraggiamento solare, il clima, la latitudine, l’altitudine, l’alimentazione, e insomma da un mucchio di cose che non mi azzardo ad approfondire per manifesta ignoranza – che a loro volta hanno attivato processi “adattivi”.

L’incidenza di come i sopracitati fattori possano contribuire a cambiare le sembianze umane mi ha sempre affascinato, ed anni fa, preparando una conferenza su gli amerindi (o nativi americani, se preferite), mi segnalarono l’articolo di un paleoantropologo di cui purtroppo non ricordo il nome, mi pare fosse norvegese: quanto narrava era così strano eppure così indubitabilmente reale che desidero condividerlo, spero risulti interessante anche per voi.

Riassumo l’articolo: allo stato attuale della ricerca, circa 60.000 anni fa popolazioni di stirpe mongola iniziarono a muoversi verso nord, probabilmente seguendo le migrazioni degli animali, attraversarono lo stretto di Behring (ghiacciato e percorribile) e calarono nell’attuale Canada: erano ondate successive e continuarono per parecchio tempo, almeno sino a quando il transito per Behring rimase percorribile.

Alcuni si fermarono lì, nel nord, altri proseguirono verso sud, possiamo immaginare che ad ogni ondata succedesse un mezzo finimondo, gruppi che si erano fermati in un territorio vennero spinti avanti da gruppi più numerosi sopraggiungenti, e viceversa qualche gruppo si sarebbe volentieri fermato in un sito se il precedente inquilino non lo avesse indotto con le spicce a proseguire. Insomma alla fine si erano sparsi su tutto il territorio delle Americhe fino all’estremo sud, alla Terra del Fuoco. Tranne i nomadi, i gruppi divennero stanziali e si identificarono con uno specifico territorio.


Come sapete, anche loro si distribuirono lungo i gradini della evoluzione, alcuni rimasero nomadi con strutture tribali piuttosto semplici, altri fondarono imperi di alto livello culturale e di complessa struttura sociale, ma vorrei rimanere sull’aspetto fisico perché entrare nelle loro organizzazioni sociali ci porterebbe fuori tema. Nei primi decenni del ‘500, quando gli spagnoli attaccarono e conquistarono l’Impero Incas, descrissero gli indigeni andini piuttosto piccoli di statura, con la testa “attaccata” alle spalle (cioè con un collo molto corto), il torace a botte, le gambe robuste ed arcuate. La scienza ha poi decrittato tali descrizioni ( mi scuso per il vocabolario non certo scientifico) più o  meno così: statura bassa per la nutrizione scarsa, il collo corto come forma di rachitismo dovuto alla dieta esclusiva di mais, quinoa e patate (la carne era poca e comunque riservata alle classi dominanti), il torace a botte per facilitare la respirazione in altitudine, le gambe muscolose ed arcuate per il trasporto a spalla di carichi pesanti (pare conoscessero la ruota, ma non  potevano comunque usarla sugli impervi sentieri andini, e comunque non c’erano animali adatti da adibire al traino).

Qualche tempo dopo altri europei, anglo-sassoni e francesi, esplorando i territori di confine tra gli attuali Canada e gli U.S.A., entrarono in contatto con alcune tribù di amerindi, gli Uroni.    Erano cacciatori nomadi che vivevano in una specie di Eden (freddo invernale a parte), tra foreste ricche di selvaggina e fiumi e laghi pescosi. Li descrissero come molto prestanti, longilinei, veloci ed instancabili nella corsa: narrarono che cacciassero inseguendo le prede correndo veloci sino a sfinirle (non avevano ancora i cavalli). Anche con loro la scienza ha decrittato la situazione: crescevano con una alimentazione proteica ed ipercalorica e la compensavano con l’allenamento della caccia, raggiungendo prestazioni fisiche di alto livello, un po’ come i moderni atleti, e vantandone un aspetto simile molto gradevole.

 Lo studioso commentava tra il divertito e lo stupito: in poche (si fa per dire, ma bazzecole per l’evoluzione) decine di migliaia di anni, Uroni ed Incas si erano modificati per fattori esogeni in maniera tale da sembrare di diverse etnie. Non fosse stato per la storia e per il DNA c’era da dubitare che il ceppo originario fosse lo stesso, e invece…

Grazie per la vostra pazienza, un abbraccio a tutti.


 

 

 

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