E così, la primavera di qualche anno fa, partimmo: ci avevano consigliato di percorrere la regione seguendo il classico itinerario ad anello che partiva da Malaga, capoluogo della provincia, quindi Siviglia, Cordova, Granada, ancora Malaga e infine la Costa del Sol a sud fino a Gibilterra.
L’ Andalusia si rivelò molto bella, bella come regione,
belle le città, ma sopra tutto bella di quel fascino particolare che hanno i
luoghi di lunga storia, magari travagliata, ma che comunque sembrano aver
assorbito nei secoli e nei millenni tutte le esperienze trascorse. Anche quelle
brutte, che tanto poi pian piano scolorano come tinture nell’acqua e con questa
si amalgamano; e nei luoghi, in quei luoghi, rimangono le atmosfere degli amori
e delle gesta, le sensazioni, i colori ed i sapori elaborati nel tempo.
Guarda caso, è la stessa sensazione che non so meglio
definire e che ho avvertito ogni volta che sono andato in Sicilia, un qualcosa
di familiare in cui avvolgermi piacevolmente. I luoghi con tanta storia mi
fanno pensare ai mobili antichi, quando sono veramente belli i segni del tempo
non guastano, ne scolpiscono e ne esaltano il fascino.
Dell’ Andalusia mi aveva sempre affascinato anche il nome,
con quel sentore languido appunto di baiadere, credevo che il nome derivasse
dalla antica presenza dei Vandali e invece ci dissero che sarebbe il ricordo di
Al-Andalus, un regno arabo a lungo insediato nel sud della Spagna.
Non ci fermammo a Malaga, ci saremmo tornati comunque per
scendere sino a Gibilterra, e prendemmo per nord-ovest, per Siviglia, e fu
subito quell’atmosfera calda e carica di passato di cui sopra. Finalmente vedo
il Guadalquivir, altro nome per me immaginifico, derivato dall’arabo Wadi al
Kabir (fiume grande). A Siviglia - viuzze arabe case bianche e balconi fioriti
- subito il classico déjà vu di impronta mediterranea, poi metti a fuoco i
ricordi di altre città simili, greche o turche, e giungi alla conclusione un
po’ dissociante che sì, c’è qualcosa di comune in tutto il Mediterraneo, ma poi
ognuna ha qualcosa di suo e quindi sono simili, ma anche no.
Delle città mi piace
tutto, architettura e colori, e gli odori vicino ai porti, e i suoni, qui il
suono della parlata locale è così veloce che non ci si capiva niente, le parole
frettolose accavallate una all’altra. Io non ho un buon orecchio per le lingue,
però mi sembrava che il castigliano del nord fosse più morbido, e sopra tutto
più comprensibile, forse perché più fedele al tardo latino di provenienza. Per
fortuna i sevillanos sono disponibili, se gli chiedi di frenare lo fanno con
pazienza e dopo un po’ l’idioma diventa più comprensibile (insomma,
abbastanza). Mi colpirono i tram, quelli di Siviglia erano (allora) molto
moderni, sembravano dei piccoli “Frecce Rosse” delle ferrovie nostrane e mi
parveroro strani in quella città.
Ricordo la grande Cattedrale, un particolare connubio di
gotico e stile moresco che potrebbe suonare grottesco ma non lo è, con un
campanile spropositato, la Giralda, simbolo della città. E’ in questa grande
chiesa che riposa Cristoforo Colombo, imprescindibile l’omaggio: qui le sue
spoglie sono racchiuse in un imponente monumento funebre in bronzo che metteva
soggezione, sembrava rammentare di stare dinanzi alla Storia.
Molto particolare anche l’Alcazar, un insieme di costruzioni
del periodo arabo che oggi - alla luce di interventi postumi - è un’incredibile
tavolozza di islamico, di mudéjar, di gotico e di rinascimento, con
l’invidiabile capacità tutta spagnola di trarre gioielli dai guazzabugli. Bello
l’Archivio delle Indie: in origine la pittoresca Casa Madre dei Mercadores, poi
sede delle Belle Arti, ed infine Archivio Generale delle Indie. All’improvviso
mi accorsi che stavo facendo uno strano percorso culturale all’incontrario, in
Sud-America e nelle Indie Orientali le architetture locali mi avevano
affascinato e le avevo ritenute un prodotto autoctono del colonialismo –
terrazzini, patio, porticati - invece ora mi rendevo conto che erano
l’adattamento locale di un preciso stile spagnolesco esportato con le
conquiste. Queste architetture strane e diverse che si sono sovrapposte e
sedimentate nel tempo mi hanno letteralmente incantato, con quella
inconfondibile impronta araba che dona un tocco di eleganza esotica e fonde il
tutto in modo mirabile.
Lasciammo Siviglia e proseguimmo a nord verso le montagne,
verso Cordova, ai piedi della Sierra Morena: origini antichissime e
controverse, per alcuni fondata dai Fenici, per altri invece città degli Iberi,
poi conquista romana del II° secolo a. C., in seguito ovviamente araba.
Indimenticabile la Mezquita, inizialmente chiesa dei Visigoti convertiti, poi
moschea dal 700 con l’invasione araba, poi Cattedrale dal 1200. La data
dell’intervento arabo mi stupì e mi fece pensare: era passato poco più di un
secolo da quando Maometto aveva svelato al mondo quella religione, e questa
aveva già espresso una forza di espansione così dirompente da giungere a
cambiare le sembianze della Spagna. Incredibile!
Ma torniamo all’architettura: chi di voi ama il gotico e
conosce le grandi cattedrali nordiche, con la selva immaginifica di colonne che
anelano al cielo, provi ad immaginare una moschea che poggia su centinaia di
colonne di granito: come entrate nella Mezquita quella sensazione di vertigine
“verticale” provata a Chartres vi prende in orizzontale, tutto attorno dovunque
volgete lo sguardo una volata di colonne e di archi (quasi) all’infinito vi
irretisce, sensazioni di ammirazione stupita – e ce ne vuole per stupire noi
abitanti delle città italiane - e momenti di straniamento ottico da capogiro.
Da Cordova tornammo verso sud, più esattamente a sud-est,
per andare a Granada, una antica città fortificata, si possono ancora vedere
lunghi tratti di mura. D’obbligo, appena sistemati in albergo, recarsi
all’Alhambra, il più noto complesso dell’architettura araba della Spagna del
sud: in pratica, è una cittadella oggi compresa nella città, a sua volta cinta
da mura rosate. E’ dal colore di queste mura che deriva il nome Alhambra, che è
tutto quel che rimane dell’arabo Qal’ at al–hamrà (cittadella rossa). La
costruzione fu iniziata nel 1200 da Muhammad ibn Nasr, che conquistò Granada e
che evidentemente pensava in grande: invece di farsi un palazzo dentro Granada,
si fece come residenza una cittadella appena fuori Granada!
E’ praticamente impossibile descriverla, ci vorrebbe un
libro: come dicevo, è una città-palazzo autonoma, sono 100.000 mq. di palazzi,
saloni, patio, giardini, bagni e piscine in puro stile islamico (bellissimo!),
ed era autonoma con tanto di moschea, scuole e negozi. Nel 1492 Granada fu
riconquistata dai re spagnoli, che per fortuna non distrussero quella
meraviglia: apportarono solo minimi adattamenti (quando i re andavano a Granada
dimoravano all’Alhambra) e dettero origine allo stile “modejar “, che mi hanno
spiegato essere composto da leggeri interventi sul precedente islamico. E
infatti l’Alhambra è il più integro complesso di stile arabo di tutta la
Spagna: lo so che è abusato, ma passeggiarvi dentro è come entrare a vivere
direttamente i racconti delle “Mille ed una notte”. Anche dopo, a lungo ho
ripensato alla sensazione di rapimento affascinato che mi regalavano quegli
ambienti arabi, o arabeggianti, eppure con mia moglie avevamo visitato parecchi
Paesi medio-orientali di cultura araba, e mai quella architettura mi aveva
colpito così profondamente: forse perché in loco quella architettura era
ripetitiva e dopo un po’ l’occhio era appagato, mentre in Spagna l’apporto
orientale si era stratificato diversamente, lì con il romanico, altrove con il
gotico, e poi diversificato ulteriormente con gli apporti successivi. Non lo
so, mi manca una specifica cultura, so che raramente la architettura dei luoghi
mi ha attratto con tanta forza.
Personalmente ci avrei piantato la tenda, ma i giorni
correvano e ci attendeva Malaga: due le principali attrazioni, la grande
Cattedrale ed il Museo Picasso. La Cattedrale non doveva essere nata sotto i
migliori auspici, iniziata nel 1500, aveva subito una lunga serie di traversie,
tra cui un terremoto, per cui alla fine avevano deciso di non investirci più:
la conclusione è che delle due poderose torri campanarie che fiancheggiano la
facciata, una è rimasta incompiuta, e la chiesa è stata soprannominata
affettuosamente La Manquita (la piccola Monca). Non è neppure brutta, poverina,
è che dopo la Mezquita e l’Alhambra non c’è proprio storia, qui ci vorrebbe
Michelangelo per non sfigurare.
Per ragioni mie particolari, e totalmente diverse
dall’architettura, ricorderò per sempre la visita al Museo Picasso, perché in
qualche modo mi rappacificò con Pablo: cerco di spiegarmi meglio. Confesso di
essere un retrogrado cultore del classico e mi viene l’orticaria quando sento
definire “artisti” personaggi che impiccano agli alberi manichini di bambini, o
incartano i monumenti, e insomma pure Picasso, in alcune sue stramberie…
Però è chiaro che, nonostante quanto sopra, al Museo “di
famiglia” di Picasso ci si va, non scherziamo, e qui ci fece da guida un
simpatico signore italiano che era anche il curatore del museo. Ci spiegò che
era stato inaugurato pochi anni prima e che tutte le opere esposte erano
donazioni dei familiari del Maestro, da qui la strana definizione “di
famiglia”. Certo non era come quello di Parigi, o quello di Barcellona, pure
contava più di 200 opere. Il Maestro non lo aveva mai conosciuto perché
postumo, e comunque non lo avrebbe visto perché aveva giurato di non rientrare
più in Spagna fino a quando ci fosse stato Franco, ed il generalissimo lo aveva
giocato morendo nel ’75: Pablo se ne era andato nel ’73.
Durante il giro delle sale, ad una certa affermazione del
nostro anfitrione, avevo espresso – con tutto il garbo possibile - delle
perplessità sulla correttezza di un sistema per cui un pittore, raggiunta la
notorietà, butta giù un qualsiasi scarabocchio su un pezzo di carta ed il mondo
lo acclama come fosse la novella Gioconda, ed al termine della visita il
curatore mi chiese se potevo dedicargli qualche momento. Fu una bellissima
conversazione (pur impari per la differenza di preparazione) su molti aspetti
della pittura moderna.
Ma la cosa più importante fu la sua indiretta risposta ai
miei dubbi sulla correttezza del sistema (e di Picasso): argomentò a lungo,
incantandomi con la sua cultura e per alcuni interessanti collegamenti tra
stili che non avevo colto. Non ricordo tutto, ma il succo del discorso era
questo: “E’ vero, non era uno stinco di santo, sapeva anche essere crudele e
con le donne era terribile, un mascalzone. So bene dei dubbi che facevano
sorgere le sue mattane pittoriche ed i suoi continui esperimenti in apparenza
strampalati, ma le assicuro che non era un imbroglione. Era un uomo dalla
curiosità sconfinata, era sempre alla ricerca di nuove forme in cui esprimere
la realtà, tutte quelle che molti consideravano appunto per prese in giro non
erano che aspetti della sua ricerca, la mano era solo il terminale della sua
inesauribile fantasia”.
Vero, non vero, chissà, mi scoprii a volerci credere, lo so
che vi farà sorridere, ma le ragioni del curatore mi avevano come liberato da
un peso, era come se avessi ritrovato qualcosa di importante, mi ero
rappacificato almeno in parte con un grande della pittura del XX secolo. Mica
poco, per me.
E poi scendemmo giù per la costa verso Gibilterra, la mitica
Costa del Sol, certo con punti molto belli, ma neppure lontanamente
paragonabili al fascino di una costiera, che so, come quella amalfitana.
Che strano effetto mi fece la Rocca, vedere l’Africa attraverso quel pezzetto di mare mi stupì, in Africa c’ero già stato ma con l’aereo era un’altra cosa. Lì invece avevo la percezione di quanto fosse esiguo quel braccio di mare, per la prima volta in vita mia coglievo in tutta la sua fisicità l’importanza storico-strategica di quello stretto: e subito mi passò accanto Annibale che iniziava la sua terribile campagna contro Roma, e poi le feluche arabe cariche di armati che avrebbero sottomesso la Spagna e terrorizzato l’Europa. Quanta storia e che momenti emozionanti!
Grazie a voi, Andalusia e Spagna, per le meravigliose
sensazioni che avete regalato ad un vecchio viaggiatore.
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P. S. Tutti conoscete le pestifere scimmiette di Gibilterra,
intoccabili per il proverbiale amore british per gli animali: al riguardo, un
simpatico e disincantato signore locale ci ha confidato la vera ragione per la
quale gli abitanti di Gibilterra accudiscono amorevolmente quelle bestiole.
Dovete sapere che per una antica leggenda la Rocca rimarrà inglese sino a che
vivrà l’ultima scimmietta, dopodiché i residenti dovranno smammare e tornarsene
in Inghilterra, a godere del suo dolce clima…
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