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venerdì 2 settembre 2022

AMARCORD: L’ANDALUSIA

 Flavio Impelluso                                                     1 Settembre 2022

Per me esistono due Spagne, so che in realtà non è vero, però nella mia immaginazione è così: c’è la Spagna del nord, austera e barocca, e quella del sud, orientaleggiante e “bailadeira”, e nonostante sia il primo a capire che non si può giudicare così a sciabolate un Paese, ogni volta che penso alla Spagna non riesco a svincolarmi da questo schema.
E probabilmente questa specie di deviazione mi ha condotto, pur essendo già stati in Spagna ed in Portogallo, a cercare di convincere mia moglie a tornarci per esplorare in particolare l’Andalusia: chi di voi la conosce sa anche della sua idiosincrasia per i viaggi, quindi mi ci volle del bello e del buono per convincerla, ma alla fine…

E così, la primavera di qualche anno fa, partimmo: ci avevano consigliato di percorrere la regione seguendo il classico itinerario ad anello che partiva da Malaga, capoluogo della provincia, quindi Siviglia, Cordova, Granada, ancora Malaga e infine la Costa del Sol a sud fino a Gibilterra.

 


L’ Andalusia si rivelò molto bella, bella come regione, belle le città, ma sopra tutto bella di quel fascino particolare che hanno i luoghi di lunga storia, magari travagliata, ma che comunque sembrano aver assorbito nei secoli e nei millenni tutte le esperienze trascorse. Anche quelle brutte, che tanto poi pian piano scolorano come tinture nell’acqua e con questa si amalgamano; e nei luoghi, in quei luoghi, rimangono le atmosfere degli amori e delle gesta, le sensazioni, i colori ed i sapori elaborati nel tempo.

Guarda caso, è la stessa sensazione che non so meglio definire e che ho avvertito ogni volta che sono andato in Sicilia, un qualcosa di familiare in cui avvolgermi piacevolmente. I luoghi con tanta storia mi fanno pensare ai mobili antichi, quando sono veramente belli i segni del tempo non guastano, ne scolpiscono e ne esaltano il fascino.

Dell’ Andalusia mi aveva sempre affascinato anche il nome, con quel sentore languido appunto di baiadere, credevo che il nome derivasse dalla antica presenza dei Vandali e invece ci dissero che sarebbe il ricordo di Al-Andalus, un regno arabo a lungo insediato nel sud della Spagna.

Non ci fermammo a Malaga, ci saremmo tornati comunque per scendere sino a Gibilterra, e prendemmo per nord-ovest, per Siviglia, e fu subito quell’atmosfera calda e carica di passato di cui sopra. Finalmente vedo il Guadalquivir, altro nome per me immaginifico, derivato dall’arabo Wadi al Kabir (fiume grande). A Siviglia - viuzze arabe case bianche e balconi fioriti - subito il classico déjà vu di impronta mediterranea, poi metti a fuoco i ricordi di altre città simili, greche o turche, e giungi alla conclusione un po’ dissociante che sì, c’è qualcosa di comune in tutto il Mediterraneo, ma poi ognuna ha qualcosa di suo e quindi sono simili, ma anche no.

 Delle città mi piace tutto, architettura e colori, e gli odori vicino ai porti, e i suoni, qui il suono della parlata locale è così veloce che non ci si capiva niente, le parole frettolose accavallate una all’altra. Io non ho un buon orecchio per le lingue, però mi sembrava che il castigliano del nord fosse più morbido, e sopra tutto più comprensibile, forse perché più fedele al tardo latino di provenienza. Per fortuna i sevillanos sono disponibili, se gli chiedi di frenare lo fanno con pazienza e dopo un po’ l’idioma diventa più comprensibile (insomma, abbastanza). Mi colpirono i tram, quelli di Siviglia erano (allora) molto moderni, sembravano dei piccoli “Frecce Rosse” delle ferrovie nostrane e mi parveroro strani in quella città.

Ricordo la grande Cattedrale, un particolare connubio di gotico e stile moresco che potrebbe suonare grottesco ma non lo è, con un campanile spropositato, la Giralda, simbolo della città. E’ in questa grande chiesa che riposa Cristoforo Colombo, imprescindibile l’omaggio: qui le sue spoglie sono racchiuse in un imponente monumento funebre in bronzo che metteva soggezione, sembrava rammentare di stare dinanzi alla Storia.

Molto particolare anche l’Alcazar, un insieme di costruzioni del periodo arabo che oggi - alla luce di interventi postumi - è un’incredibile tavolozza di islamico, di mudéjar, di gotico e di rinascimento, con l’invidiabile capacità tutta spagnola di trarre gioielli dai guazzabugli. Bello l’Archivio delle Indie: in origine la pittoresca Casa Madre dei Mercadores, poi sede delle Belle Arti, ed infine Archivio Generale delle Indie. All’improvviso mi accorsi che stavo facendo uno strano percorso culturale all’incontrario, in Sud-America e nelle Indie Orientali le architetture locali mi avevano affascinato e le avevo ritenute un prodotto autoctono del colonialismo – terrazzini, patio, porticati - invece ora mi rendevo conto che erano l’adattamento locale di un preciso stile spagnolesco esportato con le conquiste. Queste architetture strane e diverse che si sono sovrapposte e sedimentate nel tempo mi hanno letteralmente incantato, con quella inconfondibile impronta araba che dona un tocco di eleganza esotica e fonde il tutto in modo mirabile.

Lasciammo Siviglia e proseguimmo a nord verso le montagne, verso Cordova, ai piedi della Sierra Morena: origini antichissime e controverse, per alcuni fondata dai Fenici, per altri invece città degli Iberi, poi conquista romana del II° secolo a. C., in seguito ovviamente araba. Indimenticabile la Mezquita, inizialmente chiesa dei Visigoti convertiti, poi moschea dal 700 con l’invasione araba, poi Cattedrale dal 1200. La data dell’intervento arabo mi stupì e mi fece pensare: era passato poco più di un secolo da quando Maometto aveva svelato al mondo quella religione, e questa aveva già espresso una forza di espansione così dirompente da giungere a cambiare le sembianze della Spagna. Incredibile!

Ma torniamo all’architettura: chi di voi ama il gotico e conosce le grandi cattedrali nordiche, con la selva immaginifica di colonne che anelano al cielo, provi ad immaginare una moschea che poggia su centinaia di colonne di granito: come entrate nella Mezquita quella sensazione di vertigine “verticale” provata a Chartres vi prende in orizzontale, tutto attorno dovunque volgete lo sguardo una volata di colonne e di archi (quasi) all’infinito vi irretisce, sensazioni di ammirazione stupita – e ce ne vuole per stupire noi abitanti delle città italiane - e momenti di straniamento ottico da capogiro.

Da Cordova tornammo verso sud, più esattamente a sud-est, per andare a Granada, una antica città fortificata, si possono ancora vedere lunghi tratti di mura. D’obbligo, appena sistemati in albergo, recarsi all’Alhambra, il più noto complesso dell’architettura araba della Spagna del sud: in pratica, è una cittadella oggi compresa nella città, a sua volta cinta da mura rosate. E’ dal colore di queste mura che deriva il nome Alhambra, che è tutto quel che rimane dell’arabo Qal’ at al–hamrà (cittadella rossa). La costruzione fu iniziata nel 1200 da Muhammad ibn Nasr, che conquistò Granada e che evidentemente pensava in grande: invece di farsi un palazzo dentro Granada, si fece come residenza una cittadella appena fuori Granada!

E’ praticamente impossibile descriverla, ci vorrebbe un libro: come dicevo, è una città-palazzo autonoma, sono 100.000 mq. di palazzi, saloni, patio, giardini, bagni e piscine in puro stile islamico (bellissimo!), ed era autonoma con tanto di moschea, scuole e negozi. Nel 1492 Granada fu riconquistata dai re spagnoli, che per fortuna non distrussero quella meraviglia: apportarono solo minimi adattamenti (quando i re andavano a Granada dimoravano all’Alhambra) e dettero origine allo stile “modejar “, che mi hanno spiegato essere composto da leggeri interventi sul precedente islamico. E infatti l’Alhambra è il più integro complesso di stile arabo di tutta la Spagna: lo so che è abusato, ma passeggiarvi dentro è come entrare a vivere direttamente i racconti delle “Mille ed una notte”. Anche dopo, a lungo ho ripensato alla sensazione di rapimento affascinato che mi regalavano quegli ambienti arabi, o arabeggianti, eppure con mia moglie avevamo visitato parecchi Paesi medio-orientali di cultura araba, e mai quella architettura mi aveva colpito così profondamente: forse perché in loco quella architettura era ripetitiva e dopo un po’ l’occhio era appagato, mentre in Spagna l’apporto orientale si era stratificato diversamente, lì con il romanico, altrove con il gotico, e poi diversificato ulteriormente con gli apporti successivi. Non lo so, mi manca una specifica cultura, so che raramente la architettura dei luoghi mi ha attratto con tanta forza.

Personalmente ci avrei piantato la tenda, ma i giorni correvano e ci attendeva Malaga: due le principali attrazioni, la grande Cattedrale ed il Museo Picasso. La Cattedrale non doveva essere nata sotto i migliori auspici, iniziata nel 1500, aveva subito una lunga serie di traversie, tra cui un terremoto, per cui alla fine avevano deciso di non investirci più: la conclusione è che delle due poderose torri campanarie che fiancheggiano la facciata, una è rimasta incompiuta, e la chiesa è stata soprannominata affettuosamente La Manquita (la piccola Monca). Non è neppure brutta, poverina, è che dopo la Mezquita e l’Alhambra non c’è proprio storia, qui ci vorrebbe Michelangelo per non sfigurare.

Per ragioni mie particolari, e totalmente diverse dall’architettura, ricorderò per sempre la visita al Museo Picasso, perché in qualche modo mi rappacificò con Pablo: cerco di spiegarmi meglio. Confesso di essere un retrogrado cultore del classico e mi viene l’orticaria quando sento definire “artisti” personaggi che impiccano agli alberi manichini di bambini, o incartano i monumenti, e insomma pure Picasso, in alcune sue stramberie…

Però è chiaro che, nonostante quanto sopra, al Museo “di famiglia” di Picasso ci si va, non scherziamo, e qui ci fece da guida un simpatico signore italiano che era anche il curatore del museo. Ci spiegò che era stato inaugurato pochi anni prima e che tutte le opere esposte erano donazioni dei familiari del Maestro, da qui la strana definizione “di famiglia”. Certo non era come quello di Parigi, o quello di Barcellona, pure contava più di 200 opere. Il Maestro non lo aveva mai conosciuto perché postumo, e comunque non lo avrebbe visto perché aveva giurato di non rientrare più in Spagna fino a quando ci fosse stato Franco, ed il generalissimo lo aveva giocato morendo nel ’75: Pablo se ne era andato nel ’73.

Durante il giro delle sale, ad una certa affermazione del nostro anfitrione, avevo espresso – con tutto il garbo possibile - delle perplessità sulla correttezza di un sistema per cui un pittore, raggiunta la notorietà, butta giù un qualsiasi scarabocchio su un pezzo di carta ed il mondo lo acclama come fosse la novella Gioconda, ed al termine della visita il curatore mi chiese se potevo dedicargli qualche momento. Fu una bellissima conversazione (pur impari per la differenza di preparazione) su molti aspetti della pittura moderna.

Ma la cosa più importante fu la sua indiretta risposta ai miei dubbi sulla correttezza del sistema (e di Picasso): argomentò a lungo, incantandomi con la sua cultura e per alcuni interessanti collegamenti tra stili che non avevo colto. Non ricordo tutto, ma il succo del discorso era questo: “E’ vero, non era uno stinco di santo, sapeva anche essere crudele e con le donne era terribile, un mascalzone. So bene dei dubbi che facevano sorgere le sue mattane pittoriche ed i suoi continui esperimenti in apparenza strampalati, ma le assicuro che non era un imbroglione. Era un uomo dalla curiosità sconfinata, era sempre alla ricerca di nuove forme in cui esprimere la realtà, tutte quelle che molti consideravano appunto per prese in giro non erano che aspetti della sua ricerca, la mano era solo il terminale della sua inesauribile fantasia”.

Vero, non vero, chissà, mi scoprii a volerci credere, lo so che vi farà sorridere, ma le ragioni del curatore mi avevano come liberato da un peso, era come se avessi ritrovato qualcosa di importante, mi ero rappacificato almeno in parte con un grande della pittura del XX secolo. Mica poco, per me.

E poi scendemmo giù per la costa verso Gibilterra, la mitica Costa del Sol, certo con punti molto belli, ma neppure lontanamente paragonabili al fascino di una costiera, che so, come quella amalfitana.

 

Che strano effetto mi fece la Rocca, vedere l’Africa attraverso quel pezzetto di mare mi stupì, in Africa c’ero già stato ma con l’aereo era un’altra cosa. Lì invece avevo la percezione di quanto fosse esiguo quel braccio di mare, per la prima volta in vita mia coglievo in tutta la sua fisicità l’importanza storico-strategica di quello stretto: e subito mi passò accanto Annibale che iniziava la sua terribile campagna contro Roma, e poi le feluche arabe cariche di armati che avrebbero sottomesso la Spagna e terrorizzato l’Europa. Quanta storia e che momenti emozionanti!

Grazie a voi, Andalusia e Spagna, per le meravigliose sensazioni che avete regalato ad un vecchio viaggiatore.

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P. S. Tutti conoscete le pestifere scimmiette di Gibilterra, intoccabili per il proverbiale amore british per gli animali: al riguardo, un simpatico e disincantato signore locale ci ha confidato la vera ragione per la quale gli abitanti di Gibilterra accudiscono amorevolmente quelle bestiole. Dovete sapere che per una antica leggenda la Rocca rimarrà inglese sino a che vivrà l’ultima scimmietta, dopodiché i residenti dovranno smammare e tornarsene in Inghilterra, a godere del suo dolce clima…


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