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domenica 1 maggio 2022

AMARCORD: LA NOSTALGIA

Flavio Impelluso                                                                     1 maggio 2022
 
ANTEFATTO 
Qualche tempo fa la cronaca politica minore fece un certo scalpore riportando la frase con cui una onorevole deputata, parlando con dei giornalisti, si era riferita ad un conoscente definendolo alquanto icasticamente “quel (chiedo scusa) frociòne di m.!”. Notiziola nella notiziola, un cronista commentava poi, quasi divertito, che la frase fosse stata divulgata sulla stampa con un tocco di censura, nel senso che l’ultima parola era stata presentata con una “m” puntata, e si meravigliava che, tra la definizione e la materia, l’estensore si fosse vergognato di questa e non della prima. Io invece, da vecchio romano, non ci avevo trovato nulla di strano, perché per noi quel termine aveva tante sfumature diverse, poteva essere un appellativo scherzoso o persino affettuoso, mentre la specifica della materia è comunque volgare. Sia come sia, la frase mi ha catapultato indietro nel tempo, un tempo in cui certe percezioni e certe sensibilità erano molto diverse da quelle attuali. C’è di più, quel termine gergale romano di cui sopra ha fatto riaffiorare un ricordo personale, e se avrete la pazienza di seguirmi, ve lo narrerò. 

IL RIONE ESQUILINO 

Alla metà degli anni ’50 del secolo scorso, credo di averne già fatto cenno, la mia famiglia si trasferì dal quartiere Italia al quartiere Esquilino: io avevo terminato il Ginnasio e lasciai il mitico (ma ormai troppo lontano) Giulio Cesare per trovare un Liceo vicino alla nuova residenza, e fu il Pilo Albertelli. Comodo, stava (sta) di fianco alla Basilica di Santa Maria Maggiore, e ci andavo a piedi. Per quanto posso ricordare l’Esquilino all’epoca non era così, e per carità di patria evito di entrare nel merito di quel “così”, allora era un bel quartiere con dignitosissimi palazzi umbertini (niente a che vedere con i successivi orridi palazzoni di edilizia popolare) e larghi viali ombreggiati da enormi platani, c’erano varie linee di vecchi tram che facevano tanto Vienna e pensate che il piccolo parco al centro di Piazza Vittorio - la grande piazza porticata del quartiere - conservava ancora qualche pallida parvenza dello splendido giardino botanico di un tempo.
Punto di riferimento del giardino è la famosa Porta Alchemica, un’opera del ‘600 fatta erigere da Massimiliano Savelli Palombara, Marchese di Pietraforte che secondo una antica leggenda conservava il segreto della pietra filosofale. Tra i miei nuovi compagni di classe avevo legato in particolare con tre ragazzi, non ricordo bene perché proprio con loro, forse per le istintive simpatie degli adolescenti, forse anche un po’ per il reciproco riconoscimento di classe, borghesia “bene”. Avevamo eletto a luogo di incontro pomeridiano un baretto a Via Conte Verde, nella semplice logica della centralità tra le rispettive abitazioni, e lì si svolse il fatto poi richiamato dalla frase della deputata. Ero riuscito non so come a farmi comprare una costosa camicia bianca di lino - il lino allora era un lusso, per le camice si usava il cotone e quelle ricche erano di popeline - ed una domenica mattina mi presento al baretto con questa camicia, splendido nella mia abbronzatura, e suscito nel gruppetto degli amici vari commenti vernacolari, ‘anvedi de quà e ‘anvedi de là, tra cui quello stesso sopra ricordato: “ ‘anvedi ‘sto frociòne!”. La banalità del ricordo nasconde l’abisso che divide il sentire della società odierna da quella della mia adolescenza, l’enfasi della stampa data alla frase della deputata era chiaramente un tentativo di screditarla in questo periodo di sensibilità esasperata sui temi dei LGBT, mentre il commento degli amici sottolineava invece una eleganza non comune, un vestire particolarmente ricercato. Pensate che ricordo di aver sentito la stessa frase riferita al grande De Sica, arcinoto e insospettabile fimminaro, quando appariva nei film con i suoi elegantissimi doppio petto di lino bianco (appunto) e pochette. Non è del tutto vero che quella frase ha risvegliato in me solo ricordi, c’è anche tanta nostalgia, e rimpianto, in quei ricordi c’è la nostalgia di una Roma dalle grandi braccia generose e intelligenti, una Roma ancora un po’ provinciale eppure ironica e saggia dei suoi millenni, forse ancora memore del profondo respiro ecumenico del passato, dove le battute volavano via libere come rondini, e se erano buone eri il primo a riderne: ce dovevi ‘stà! Tornando al vernacolo, una cosa che alla luce delle tensioni odierne pare lunare, ma vi assicuro essere vera - almeno nell’entourage delle mie frequentazioni - è che a Roma il termine omosessuale lo usavi solo se volevi impressionare qualcuno, o con un estraneo, o nel salotto delle vecchie zie, mentre normalmente il termine colloquiale era frocio. Ma questo termine, e qui uso nuovamente il termine abisso per marcare la differenza, per noi non era in alcun modo spregiativo, era solamente connotante di un fatto, e non implicava condanna sociale e neppure riprovazione morale, non ne parliamo poi di odio, era così e basta. Una pennellata di colore: se uno proponeva di andare a farci un cono gelato (mitico) da “I frocetti” ai Parioli, non c’erano ammiccamenti o commenti strani, per noi era come andare da Alemagna per una cioccolata calda, l’unica differenza era che andare ai Parioli dall’Esquilino era una mezza avventura, e ci volevano due tram. I giovani non sanno quanto era piacevole vivere quando non c’era ancora il politicamente corretto, e se lo facevi con intelligenza ed educazione potevi parlare di tutto e sostenere le tue idee tranquillamente, senza suscitare odi profondi e sopra tutto senza essere ghettizzato se non eri dell’area intellettualmente prevalente. Certo, anche allora tensioni ce n’erano, ma non mi sembrava ci fosse tanta cattiveria ideologica, almeno io non me la ricordo: è come se nel tempo avessimo seguito le sorti di questa città che, copiando il titolo di un vecchio film, è diventata brutta, sporca e cattiva. E noi con lei. ------------ P. S. Ero tentato di non raccontarvi la fine ignominiosa della camicia bianca di lino, poi in un sussulto di onestà ho deciso di svelarla. La stessa estate dei fatti del baretto ero ad Ostia, nel solito stabilimento, e cercavo qualcuno tra la schiera di ombrelloni allineati. Ricordo che indossavo la ormai mitica camicia bianca e la portavo fuori dai pantaloni, quando un richiamo mi trafisse la schiena, qualcuno aveva chiamato ad alta voce GELATI, pronunciando la parola con la tipica sgranatura romana della G e con la A molto allungata ed accentata, così che suonava “Gggelàààti…”, proprio come lo cantilenavano i ragazzi in pettorina bianca (!), col banchetto refrigerato al collo, che vendevano gelati su e giù sul bagnasciuga. Mi guardai intorno con intenzione per individuare lo spiritosone, magari per far finta di aver apprezzato la battuta, ma nessuno raccolse il guanto: io rimasi con il dubbio, ma la ferita era oramai inferta, me la sentivo bruciare sulla schiena. E la camicia bianca non l’ho più indossata.

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