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venerdì 4 marzo 2022

RIFLESSIONI - LE GRANDI CIVILTA’ DEL PASSATO

Flavio Impelluso                                                   2 Marzo 2022

Le grandi civiltà del passato mi hanno sempre affascinato, ma il passaggio da una attrazione poco disciplinata ad uno studio un po’ più serio lo devo a Luca Canali, che ho avuto come professore al Liceo. Tra queste civiltà, probabilmente per i miei successivi studi giuridici - o forse più semplicemente per esservi nato e cresciuto -Roma e la sua storia hanno un posto privilegiato nella mia mente. E nel mio cuore.                               

Ma questa passione non mi distoglie dagli altri popoli, e tutti, collocati correttamente nel loro contesto temporale, mi appaiono grandissimi, tutti indistintamente, Sumeri, Assiri, Greci, Babilonesi, Egiziani, Etruschi, Romani, in pratica tutto quello che siamo lo dobbiamo a loro, e chiedo scusa se non ne ho citato qualcuno: preciso che i miei interessi ed i miei studi si riferiscono al Medio-Oriente ed all’Occidente

Loro i primi a tradurre i pensieri in segni, i primi ad imprigionare lo scorrere del tempo all’interno di parametri umani, i primi a codificare e ad applicare i corretti princìpi del civile convivere, i primi ad attuare concretamente concetti nuovi ed astratti come la democrazia, i primi a costringere l’evanescente giustizia in norme codificate, insomma che vi devo dire, trovo illuminante l’aforisma di Bernardo di Chartres (*) che ci dà una bella ridimensionata:

 “…. noi siamo come nani sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere un maggior numero di cose e più lontano di loro, ma non per l’acutezza della vista o la possanza del corpo, ma perché sediamo più in alto e ci eleviamo proprio grazie alla loro grandezza”.

Una cosa che mi lascia perplesso è che – a fronte di un atteggiamento generalmente positivo ed ammirato nei confronti di queste antiche civiltà – nei confronti di quella romana ci sia un certo riserbo, se non talvolta aperta ostilità. E’ un fatto che mi risulta incomprensibile: sono state tutte “grandi”, sono i giganti di Bernardo (o di Prisciano) che hanno illuminato per millenni il mondo, è sulle loro spalle che siamo giunti sin qui.

Questa strana sensazione che non so definire, e che ho chiamata riserbo, o ostilità, la ho riscontrata spesso in varie manifestazioni del pensiero – convegni e dibattiti culturali, rievocazioni teatrali o cinematografiche, o nei libri e talvolta nelle semplici conversazioni tra amici.

Prendiamo ad esempio la cinematografia, e non perché sia un cinefilo, ma perché nel secolo scorso i film sono stati un potente strumento di diffusione di cultura popolare: ebbene, nella cinematografia la romanità viene rappresentata quasi esclusivamente attraverso le figure bieche di imperatori folli, pozzi di nequizie spesso ridotti a macchiette, il cui passatempo principale (se non l’unico) pare fosse quello di tessere intrighi, frustare la gente - in particolare i cristiani - ed appenderla alle croci.

Tanto per rimanere nella cinematografia, non ricordo nulla che esaltasse, che dico, neppure che rammentasse positivamente alcuni pilastri della vita moderna come il bilanciamento del Senato (le moderne Camere Alte) con il veto dei tribuni del popolo antesignani delle Camere dei deputati, l’istituzione della difesa nei processi e la creazione delle relative procedure, il moderno calendario Giuliano, l’alfabeto latino di maggior diffusione, l’architettura, l’ingegneria delle acque e delle strade, l’ecumenismo ante litteram di Caracalla che tanto influenzerà il largo respiro della Chiesa, tale che oggi Chiesa/ecumenismo è un tutt’uno, mentre del povero Caracalla si ricorda solo la storia del cavallo. E taccio su gli aspetti militari e strategici perché so già quale sarebbe il trito commento.

E neppure mi pare ci sia stata attenzione  -tra le innumerevoli rievocazioni cinematografiche di figure storiche   o comunque rese quasi storiche dalla letteratura- per figure esemplari della   romanità, come il Bruto che si erge contro il tiranno, o il sacrificio coerente sino alla morte di Attilio Regolo, o la grandezza morale di Cincinnato, interprete ante litteram del “civil servant”, tanto auspicato nelle nostre amministrazioni e purtroppo così poco presente. Largo spazio elogiativo per contro è stato dato nel tempo agli avversari di Roma, come Annibale, o Spartaco, e persino al povero Vercingetorige (al quale hanno avuto almeno il buon gusto di propinare una pozione magica per renderlo eroico), dei quali la cinematografia ma anche la letteratura e persino i fumetti continuano periodicamente ad esaltare le eroiche imprese.

Ma perché? Cosa, di questa grande civiltà, infastidisce tanto molti settori intellettuali, nostrani e stranieri, al punto di manifestare un inusuale accanimento, quasi una posizione preconcetta che sembra ignorare ogni aspetto positivo, per illustrarne invece con cura spietata solo gli aspetti più bui?

Cercando di capire lo strano fenomeno, ho lanciato in giro vari “palloni-sonda” e raccolto svariate ipotesi: alcuni ritengono che questo atteggiamento potrebbe derivare, in Italia, da una specie di sovrapposizione mentale tra il ventennio fascista e l’antica Roma, tale da suscitare reazioni pavloviane in presenza dell’uno o dell’altro argomento. Altri ipotizzano invece, a raggio più ampio, una generale condanna morale dell’assetto politico e sociale dell’impero romano, altri infine suppongono che in determinati ambienti aleggi ancora la riprovazione per le persecuzioni dei cristiani.

Vero, non vero, non saprei: certo la prima ipotesi, quella pavloviana, denoterebbe un approccio così grossolano da farmi dubitare che provenga dai prevalenti settori culturali del momento, quelli per capirci “intellettualmente superiori”.

Quanto alla pratica di giudicare il passato alla luce delle moderne dottrine sociali, la condanna è univoca da parte di tutta la critica storica, ad iniziare da Spinoza, ed il suo uso è rimasto un espediente politico piuttosto rozzo di ambienti settari per screditare un’epoca o un popolo agli occhi di una opinione pubblica sprovveduta. 

E comunque, ammesso e non concesso (appunto) che esprimere oggi giudizi morali su fatti e contesti di migliaia di anni fa abbia un minimo di logica storica, perché tale severità viene applicata solo alla civiltà romana? Perché le conquiste di Alessandro ne fanno un mito e quelle di Cesare ne fanno un oppressore? Perché mai Marx ha preso tanto a cuore le sorti del proletariato romano, tanto da farne un perno della sua dottrina, e non si è preoccupato delle maestranze che costruirono le piramidi, o di come gli stessi Egiziani ed i Babilonesi deportavano interi popoli in schiavitù? Mah!

Possibile che una certa cultura moderna trovi scomodi i valori della civiltà romana, e tenti di offuscarne l’immagine ed i ricordi? E con quali altri dovremmo sostituirli? Dovremmo davvero credere, come una certa cultura politicamente orientata vorrebbe imporci, che i valori fondanti del nostro Paese, i pilastri della nostra cultura, siano esclusivamente una serie di singoli episodi, che so, la disfida di Barletta, o i moti del Risorgimento o la resistenza antifascista - mere ancorché vivide faville di un falò estivo dinanzi al fluire millenario della Storia - e non il bagliore della civiltà che illuminò di sé il mondo, e che ancora ne colora tante sembianze? Ma per piacere…..

Amici miei, me ne farò una ragione: mi rifugio nel ricordo di quel passato con le parole di due grandissimi storici, Edward Gibbon e Theodor Mommsen, i quali in secoli diversi commentarono la caduta dell’Impero Romano descrivendola con un concetto pressoché identico: “….si è spenta la luce, e il mondo è precipitato nelle tenebre”.

 In vecchiaia, ricordando Luca Canali.

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(*) L’ attribuzione di questo aforisma a Bernardo di Chartres è contestata, per alcuni è di Prisciano, grammatico latino del V secolo p. C..

 

 

 

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