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martedì 1 febbraio 2022

AMARCORD: IL VIETNAM

Flavio Impelluso                                                            1 Febbraio 2022

Stiamo passeggiando con un gruppetto di amici per le vie di Hanoi, la capitale del Vietnam: è una mattina di Marzo del 2018, veniamo da Singapore.

Che strano muovermi in una città che nel bene e nel male è un pezzo di storia recente, tutti quelli della mia età hanno vissuto ed in qualche modo partecipato alla guerra del Vietnam, ideologicamente o forse soltanto  sentimentalmente; e adesso stare qui a girare per queste strade larghe con la gente indaffarata, gli sciami di motorini che compiono eleganti traiettorie, la vita che pulsa, tutto mi fa uno strano effetto, è come respirare dopo una lunga apnea.

Hanoi non è affatto brutta, non ci sono – come temevo - quegli orridi palazzoni di edilizia popolare tipici dei regimi, anzi hanno conservato parti “coloniali” eleganti e sobrie, a parer mio sono i quartieri più belli, ma sapete che sono viziato dai miei gusti retrò. Di questa capitale ricordo il grande mausoleo di Ho Chi Minh, lo zio Ho, come lo chiamano loro, le belle pagode, il Lago della spada e poco altro, a mio sommesso parere la vera bellezza del Vietnam sono i paesaggi, le foreste, i laghi e i fiumi, le distese dei campi di un giallo intenso e le terrazze verde brillante delle risaie. 
Comunque sia, la cosa che più mi ha colpito di Hanoi, è stata la visita al sancta sanctorum del governo del nord Vietnam durante il conflitto, la palazzina con la sala riunioni dove Ho Chi Minh teneva i suoi consigli di guerra.
Iniziai la visita con un leggero indefinibile disagio, mi capita di avvertire sensazioni alle quali non riesco a dare nell’immediato una spiegazione razionale, poi misi a fuoco: era che la mia educazione non mi consentiva una adesione entusiastica ai luoghi storici della espansione comunista nel sud-est asiatico.  Ma passò presto, la passione per la storia prevalse, e poi la guida locale era brava, spiegava le cose in modo un po’ piatto ma non sciatto, e senza retorica.

Scendiamo le scale, anguste e ripide, forse per più di un piano, non ricordo bene, e ci troviamo in una stanza lunga e stretta, una specie di bunker, tavolo altrettanto lungo al centro, e mi pare di ricordare che ci fossero un paio di vecchi telefoni: alle pareti mappe militari di territori vietnamiti. Un’atmosfera di squallore e povertà, come di cose improvvisate, sembrava impossibile che da quel buco di cantina…

E invece… e invece era stato proprio possibile, quella era la sala riunioni dove Ho Chi Minh, il fido Giap ed i loro generali studiavano i loro piani di guerra, e da lì tennero in scacco l’esercito più potente del mondo. Lì si era compiuta una parte della storia del ventesimo secolo: luoghi come questi per me hanno sempre un forte potere evocativo, se ti abbandoni e lo cogli ti farà volare nel tempo, ti farà sentire parte e partecipe della storia stessa.

La sensazione che iniziai a provare in quella povera stanza era proprio questa, quella di stare in qualche modo vivendo la storia: intendiamoci, non parlo di una partecipazione attiva con l’elmetto in testa, dico di sentirsi “dentro” la storia, di viverla perché era stata fatta proprio lì, non di leggerla “da fuori” sui libri. Perché quelle pareti parlavano e, devo ammetterlo, trasmettevano sensazioni molto forti di tenacia, di volontà pugnace e di tensione morale.

Era come se la forza evocativa di quel luogo avesse sospeso per un attimo ogni prevenzione: ogni giudizio divenne irrilevante, quella stanza mi aveva fatto vivere un momento di raro coinvolgimento e di riluttante rispetto.
Questa strana sensazione, diciamo di coinvolgimento attivo, l’avevo provato due sole volte in vita mia, la prima nel palazzo di Livadja a Yalta, nella stanza e dinanzi al tavolo dove i tre grandi nel ’45 decisero le sorti del mondo; la seconda in Scozia, nella villa di Walter Scott, aggirandomi (e toccando tutto, lo confesso, in assenza del sorvegliante) tra i cimeli che lo storico – nei giorni  successivi alla battaglia - aveva personalmente raccolto a  Waterloo. Auguro a tutti gli appassionati di storia di vivere questi momenti.

Poi uscimmo dalla storia e rientrammo nel nostro ruolo di turisti: lasciammo Hanoi e andammo ad est per la baia di Ha Long, nel Golfo del Tonchino, dove ci imbarcammo per una crociera: piccoli battelli tipici che navigano lentamente per questa baia incantata, da molti considerata l’ottava (qualcuno dice settima) meraviglia naturale del mondo.


Ottava meraviglia o meno, il luogo è veramente incantevole, immaginate una grande baia dove dall’acqua sorgono isole, isolette, scogli della più differente composizione e grandezza, e archi naturali dentro i quali infilarsi pigramente con il battello, in un’atmosfera fiabesca, ti guardi intorno e dici non è vero, sto sognando, e insomma non so descriverlo meglio, posso solo dirvi che tra i luoghi visitati questo è uno dei più belli e particolari: la crociera in battello nella baia di Ha Long vale quasi da sola un viaggio nel Vietnam.

E poi scendemmo verso sud - un itinerario molto bello studiato dal nostro amico e tour leader Faik - con Danang, e poi Hoi Han, Hue e Saigon ed infine Pnomh Pen, da dove poi abbandonammo il Vietnam per andare in Cambogia. Ma restiamo ancora in Vietnam.

Ho già accennato al fatto che di quel Paese ho apprezzato più i paesaggi che le città, adesso che il tempo ha frapposto la giusta distanza credo di aver compreso il perché: perché non sono riuscito ad “entrare” nel loro stile architettonico (quello antico ovviamente), uno stile che sembra leggero,  talvolta lezioso, invece è complesso ed evidentemente per me di non facile interpretazione. Forse mi ci voleva più tempo per comprenderlo.

E così, mi spiace ammetterlo, ma di quelle belle città ho un ricordo piacevole e sereno ma confuso: non distinguendo le raffinatezze architettoniche e gli stili diversi – peraltro spiegati correttamente dalle guide - non sono riuscito ad apprezzarle nel loro giusto valore.

L’unica città che si stacca vivida nei miei ricordi confusi è Saigon, dove mi avevano detto che avrei avuto modo di rivivere le scene terribili – ripetute quasi all’infinito dalle televisioni di tutto il mondo - della presa della città da parte dei Viet Kong, e della tragica fuga degli americani e dei loro sodali. 

Ed in effetti devo ammettere che la visita alla ex ambasciata americana è stata di forte impatto: una sapiente regìa volutamente realista e insieme, come dire, pauperista, aveva lasciato il grande elicottero americano - l’ultimo a tentare una fuga ormai impossibile – sul tetto dell’edificio, mentre in giardino erano acquattati i due tank dei Viet Kong che irruppero nell’ambasciata americana sfondando il cancello.

La resa scenica di quell’insieme scarno era più impressiva di tante coreografie, e nulla - l’insieme del quadro, gli anni trascorsi, la mattinata di sole ed il cicaleccio dei turisti - nulla indeboliva la forza descrittiva della scena che mi si presentava, era un momento topico del passato inchiodato nel presente.

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E poi c’era il Mekong, il grande fiume che nasce dal Tibet e bagna tanti Paesi del sud-est asiatico, che ci accompagnò sino a quando lasciammo il Vietnam.  Ho avuto la fortuna di conoscere molti grandi fiumi storici, il Nilo, il Gange, lo Yangtze, il Rio delle Amazzoni, e tutti mi hanno intrigato e affascinato, forse è la storia dei millenni che scorre dentro le loro acque, o forse, come il Rio delle Amazzoni, per il senso dell’avventura e per la sua vastità che ti mette paura, quando dalla piroga l’altra riva è così lontana che non la distingui, e si confonde con l’orizzonte.

Del Mekong non sapevo quasi nulla, eppure anche lui mi affascinò e mi suggerì il termine maestoso, o regale, forse per le acque dalla corrente placida, che io ricordi senza cataratte o gorghi, magari invece quando è in piena è un’ira di Dio.

Ricordo la particolare sensazione di completo rilassamento, quasi straniante, di quella navigazione nel grande fiume tra le rive verdi, e le anse con all’interno i villaggi da cartolina con la spianata di sabbia davanti e le palafitte e le capanne, ed il borbottìo soporifero del nostro fuori bordo che si alzava ogni tanto isterico per qualche ragione ignota.

E poi il famoso delta, e le barche più piccole, e la navigazione tra i labirinti dei rami, e la vegetazione più fitta, da giungla, e lì confesso che Coppola, Wagner e Conrad cercavano di inserirsi un po’ troppo spesso nella mia mente, e alla mia bella età non ho ancora capito se il bagaglio della nostra cultura occidentale – in certi momenti magici - è un arricchimento o una distrazione.

Ed infine abbandonammo il Mekong per un canale che ci avrebbe condotto in Cambogia, ma non era la stessa cosa, era un battello veloce, addio atmosfera sognante, tornavamo nel nostro secolo.
E poi la Cambogia, ma quello è un altro racconto.

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Invio questo Amarcord a tutti i miei amici, ma è dedicato in particolare ai partecipanti di quel viaggio. Uno speciale ringraziamento alla nostra Guida, il mitico Faik Erdogan. Un abbraccio affettuoso a tutti, Flavio.
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