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giovedì 28 luglio 2022

Riflessioni - “ Il Cavallo di Troia”

 Flavio Impelluso                                                28 luglio 2022.

Stavo combattendo in terrazzo contro i bruchi delle rose – subendo sconfitte imbarazzanti, che ‘to-ò dico a ‘ffà - quando una notizia alla radiolina mi ha fatto drizzare le orecchie: il cavallo di Troia non era…un cavallo!

La notizia proseguiva chiarendo che un archeologo navale, Francesco Tiboni,  sostiene che il marchingegno del famoso inganno non era un cavallo, bensì una nave fenicia con la prua/polena sagomata a testa di cavallo (vedi fig.) e per questo chiamata per sineddoche comunemente hippos, cioè cavallo.



L’ipotesi avanzata è che si sia trattato di un errore di interpretazione nei testi successivi a Omero: in pratica il cantore - descrivendo la costruzione di un “hippos” come stratagemma per abbattere le difese dei Troiani - si sarebbe riferito ad un tipo di nave fenicia così chiamata per la forma della sua prua, mentre i successivi estensori dell’Iliade avrebbero preso il termine alla lettera.

Non mi soffermo ovviamente a riepilogare la storia dell’espediente di Ulisse per poter introdurre degli armati all’interno della città assediata, è troppo nota, e torno invece a Tiboni, questo archeologo che sfruttando le sue specifiche competenze di archeologia marina (e secondo me anche la sua ottima conoscenza del greco antico) supporta l’ intuizione con fatti e riferimenti storico-letterari: ad esempio scovando che già Pausania (reggitore di Sparta del II secolo a. C.) scriveva che “quello realizzato dai Greci nell’assedio di Troia era un marchingegno per abbattere le mura e non un cavallo, a meno che non si voglia attribuire ai Frigi (altro nome dei Troiani) una assoluta dabbenaggine. E terminava sprezzante: ma la leggenda dice che è un cavallo”.

In effetti, anche ad un osservatore poco esperto salterebbe agli occhi che per i maestri d’ascia greci sarebbe stato forse più facile costruire una nave – o  adattarne alla bisogna una delle loro - che non inventarsi un cavallo, e magari sarebbe stato anche più facile nascondere degli armati nella stiva di una nave che non nella pancia di un cavallo. A dirla tutta – anche ad accettare per buono il volere degli dei e le superstizioni – quasi tutti abbiamo pensato che ‘sti Troiani, nella circostanza, non siano stati propriamente degli Einstein.

Ma torniamo a Tiboni, che sempre a supporto della sua tesi ci rammenta che nella cultura greca classica ci sono molti esempi di associazione tra i cavalli e le navi, così Poseidone è il dio del mare ma è anche il nume protettore dei cavalli e spesso le navi sono definite “i cavalli del mare”. Come nell’Odissea, quando  Penelope teme per Telemaco partito alla ricerca del padre e invoca “O cantore, perché mio figlio è partito? Perché si è imbarcato sulle veloci navi, che per gli uomini sono come i cavalli del mare?”

Anche per il trasporto del cavallo all’interno delle mura di Troia, Tiboni fa notare che Omero spiega il sistema di alaggio che nell’antichità veniva utilizzato per il normale rimessaggio delle navi, e cioè il rotolamento su rulli.

Poi Tiboni fa un salto di qualità, diciamo così, addentrandosi in particolari tecnici che solo l’esperto può cogliere: forse ricorderete che ad un certo punto dell’Iliade Omero parla delle ragioni per cui i Greci “dovevano” terminare l’assedio e andarsene, ed era (oltre al fatto che s’erano stufati) perché le cuciture delle loro navi erano ormai fradicie ed il ritorno poteva rivelarsi pericoloso. Gli estensori hanno interpretato che queste cuciture fossero il cordame e le vele, ma per Tiboni non è così, dato che il degrado di questi accessori non sarebbe stato così grave da costringerli al rimpatrio: egli ritiene che quegli estensori non sapevano che il fasciame delle navi greche era effettivamente “cucito” con grossi punti a croce di fibre vegetali, cosa che noi oggi sappiamo grazie allo studio degli antichi relitti, e che la decomposizione di queste cuciture era pericolosissima perché erano queste che tenevano unito lo scafo, e che se cedevano  potevano letteralmente aprire lo scafo stesso in navigazione. Per questo dovevano in ogni modo tentare di chiudere la partita ed andarsene, c’era il rischio che rimanendo ancora, le navi non fossero più in grado di tenere il mare.

Un’ultima notazione storico-letteraria: Tiboni si riferisce all’Eneide, quando Virgilio (che come noi aveva accolto la tesi dell’equus ligneus) narra della costruzione, descrive senza volerlo proprio le tecniche della cantieristica navale del tempo. Virgilio infatti narra di una costruzione (da lui riferita al cavallo) che in realtà descrive esattamente come si costruivano le navi al tempo, il travone centrale, la costolatura interna in rovere, le murate in abete, ecc.

Tra gli appassionati l’ipotesi di Tiboni ha suscitato un mezzo vespaio, nella mia piccola ricerca a dire il vero ho trovato anche voci contrarie, circa le quali non ho alcun commento da fare per manifesta incompetenza: personalmente l’ipotesi mi ha affascinato, non perché sia in grado di valutarla, ma solo per il ragionamento superficiale che sì – una volta posta la tesi - mi sembra più logico che i Greci avessero usato una nave come stratagemma anziché un cavallo.

Stanno cambiando la storia? Io non credo, anche perché stiamo più propriamente dalle parti del mito: credo si tratti di uno studioso che, riguardo ad un fatto leggendario ma presentissimo nell’immaginario collettivo, avanza l’ipotesi che un episodio si sia svolto tecnicamente in modo diverso da quanto tramandato. Sia come sia, certo sarebbe eclatante: non oso pensare a quanti milioni di ragazzi, in quasi 3.000 anni, hanno studiato l’Iliade e la sera di un certo giorno sono andati a dormire pensando al grande cavallo di legno!

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In un sussulto di autocritica, purtroppo per voi postumo, mi sono chiesto: ma perché questa notizia mi ha acchiappato tanto? E perché disturbi i tuoi amici diffondendola? Be’, alla prima domanda la risposta è difficile, alla seconda è facile. Credo mi abbia acchiappato perché il passato classico lo sento come mio, è una parte integrante non solo della mia cultura, ma quasi di me stesso.

E quanto più quel passato è lontano, quanto più la storia scivola nel mito, tanto più ne sono attratto. Forse è proprio il fascino insito nel mito e la forza di quei suoi personaggi che nei millenni non accennano a scolorire e continuano a vivere tra noi, perché noi diciamo ancora “quella interpellanza è in realtà un cavallo di Troia dell’opposizione”, oppure che “il tallone d’Achille di quello scrittore è lo scarso approfondimento dei personaggi”.

Quanti personaggi moderni circoleranno ancora nell’immaginario collettivo tra mille anni? Questo, magari confusamente, è il perché quel mondo di personaggi immortali continua ad acchiapparmi.

Be’, alla seconda domanda la risposta è facile: perché mi piace coinvolgere i miei amici nei miei ricordi, nelle mie riflessioni e nelle mie piccole “scoperte”.

 

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