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martedì 17 novembre 2020

Amarcord: Mongolia

Flavio Impelluso                                                                   14 novebre 2020

E così, dopo i saluti ed i ringraziamenti, a sera la piccola carovana dei mongoli si avvia e noi rimaniamo lì, nella steppa, con la gher (la tenda mongola) che ci avevano lasciato, soli con la nostra guida e con l’autista. 

Una strana situazione, che richiede un minimo di storia: il programma del viaggio era piuttosto articolato, e tra le altre cose prevedeva di fare varie tappe, fermandoci ogni volta in un piccolo accampamento di nomadi, condividendo il loro quotidiano, mangiando con loro e dormendo nelle loro tende. E così era andato sino allora, avevamo trascorso giornate stupende, coccolati dalle persone più cordiali e più pazienti mai incontrate, ed era stato come vivere in un libro di avventure.

All’ultima tappa il pasticcio, perché la neve era arrivata prima del previsto, i nomadi della nostra ultima sosta avevano finito il fieno per le bestie e dovevano assolutamente scendere dall’altipiano per ritrovare pascoli buoni, e quando arrivammo quel pomeriggio stavano smontando le tende per caricarle sui carri: ci invitarono a seguirli col nostro fuoristrada, ma ci avrebbero portati fuori percorso, perché noi dopo dovevamo proseguire verso sud per entrare nel deserto del Gobi.

Serafico ed evidentemente abituato a risolvere gli inconvenienti, il capo della piccola tribù ha già trovato la soluzione: ci lasciavano una gher con viveri, acqua e legna, potevamo restare lì quanto volevamo o finché fossero durati i viveri, l’unica raccomandazione era di chiuderla bene alla partenza, non per i ladri che pare non ci fossero, ma per gli animali. Neve permettendo, sarebbe poi venuto qualcuno dei loro a smontarla, caricarla sul carro e portarsela via.

E così andò, e fu un’ottima soluzione, ma confesso che quando la lanterna appesa all’ultimo carro è sparita nel buio, ci si è stretto il cuore: con una distesa infinita di steppa innevata intorno e la neve che scendeva sempre più copiosa, il senso di vuoto e di solitudine ti cala addosso come piombo.  

Accingendomi a farlo, mi accorgo che non è facile spiegare come e perché stavamo (mia moglie ed io) più o meno al centro della Mongolia, di notte e sotto la neve, accanto ad una tenda, con l’unica compagnia di una guida, un autista e una Toyota. Il fatto “gli” è, come diceva Collodi, che ci è sempre piaciuto viaggiare, e la Mongolia riassumeva in sé il fascino dei paesi sulla via della seta, i racconti delle traversate del mitico deserto del Gobi, e poi stuzzicava le mie curiosità sui dinosauri (lo sapevate che alcuni degli scheletri dei musei americani provengono  dalla Mongolia?), e poi ancora c’era da approfondire l’influenza che ebbero le orde mongole sulle invasioni barbariche dell’Impero romano (cosa che non sono riuscito a fare), e insomma ce n’era abbastanza per andarci: e così ci facemmo organizzare un tour che ci facesse vedere più cose possibili di quel paese.

Oggi non lo so, ma allora non c’erano linee dirette per la Mongolia, bisognava andare a Mosca e da lì raggiungere la capitale Ulan Batòr, un viaggio che non finiva mai. Ad Ulan Batòr avremmo trovato la guida/interprete e l’autista: dato che la Mongolia è quasi sei volte l’Italia e le strade si contavano sulle dita di una mano, ci saremmo mossi in aereo e con fuori strada. Di fatto, avremmo potuto pagare cara la nostra voglia d’avventura perché ce ne capitarono di tutti i colori, altro che romanzo, con quella guida imbranata: per nostra fortuna l’autista era veramente in gamba, la Toyota si arrampicava letteralmente su per i muri ed ogni volta ce la cavammo.

Ma torniamo alla nostra tenda, rientriamo infreddoliti per cenare ed abbiamo modo di guardarci attorno con più calma: ci avevano già spiegato come erano costruite queste gher, e poi lo avevamo visto mentre le smontavano. La base è una struttura circolare di legno che racchiude una superfice di una ventina di metri quadri, poi un palo centrale come nei tendoni del circo e tiranti di ancoraggio. Quindi la copertura con pelli impermeabili e pannelli di feltro, il tutto “impacchettato” con grandi teloni bianchi.   Anche il pavimento in terra battuta è ricoperto di feltro e spessi tappeti. Nella nostra c’erano un tavolo basso, sgabelli, una stufa-cucina, cassapanche e armadietti per il vestiario e le suppellettili: due letti completavano l’arredamento. E lì appena cenato ci rifugiammo, noi in un letto e guida e autista nell’altro, perché nonostante la stufa fa molto freddo: ma questa benedetta neve non poteva aspettare ancora qualche giorno?

 Con mia moglie stiamo rannicchiati con tutti i vestiti indosso, seppelliti sotto strati di coperte, prima ne avevamo scartate alcune per un forte odore di cavallo, ma l’alterigia è durata poco, adesso ce le teniamo ben strette. Gli altri due dormono come ghiri, beati loro che non soffrono il freddo, russano come mongoli! La stufa è quasi incandescente, mia moglie la alimenta con i ciocchi di legno che ci hanno lasciato i nomadi, ma noi continuiamo ad avere freddo e ad un certo punto dobbiamo uscire dalla tenda perché dentro non c’è il bagno, usciamo e……entriamo in un altro mondo, quello delle fate.

Un mondo ovattato, l’infinito intorno a noi, a perdita d’occhio la piana bianca dell’altopiano, scende una neve leggera in un silenzio totale, realizzo che sto vedendo come se fosse giorno ma sono le tre, è piena notte, e questo già sconcerta, è irreale. Cerchiamo di capire il fenomeno, scopriamo che i piccoli fiocchi di neve scendono da una coltre di nubi molto bassa, pare di toccarla, ma è luminosissima, evidentemente non è molto spessa e lascia filtrare una luce da luna piena, distinguo le lancette ed i numeri dell’orologio, forse è questo quando gli scrittori parlano di paesaggi da sogno, questo è proprio impalpabile come i sogni. Continuiamo a guardarci intorno incantati come bambini, è tutto così strano e nuovo per noi che quasi non sentiamo il freddo: quando azzardiamo un commento estasiato quasi sobbalziamo perché anche un sussurro è incongruo in quel silenzio che pare avvolgerci nell’ovatta.

Non ricordo bene quanto tempo passò, forse scivolammo un po’ in uno stato di estraniazione dalla realtà circostante, niente di magico, per carità, solo momenti di benessere totale dello spirito.

Poi all’improvviso ci riporta alla realtà un ululato lontano, sembra rimbalzare nel cielo perché prima si sentiva da una parte poi da quella opposta, è incredibile ma i lupi non ci fanno paura, mica perché siamo avventurosi, è il contesto che è strano, lo spettacolo che abbiamo intorno è così irreale che anche gli ululati non sembrano veri, sembrano far parte dello stesso sogno. E poi gli ululati sono lontani, e noi non ci allontaniamo dalla tenda: la porticina di legno della tenda è robusta e i mongoli ci hanno assicurato che una gher chiusa è a prova di lupi.

Poi alla lunga il freddo vince, sconfigge anche i sogni e dobbiamo rientrare, ora più in sintonia col mondo circostante, anche gli ululati nella tenda sicura erano appena un sottofondo, e finalmente un sonno profondo sino al mattino.

Una cosa così non l’avevamo mai vissuta, un impatto emotivo di forza straordinaria, forse se la batte con un’aurora boreale che avevamo visto volando sul Polo Nord. Nei ricordi che si allontanano implacabili con gli anni, quella notte in Mongolia rimane in bilico tra il reale e l’onirico, ma è indelebile: è un’altra pagina delle esperienze che arricchiscono la vita.

Al mattino dopo colazione, bagagli, attenta chiusura della gher e via: il mitico deserto del Gobi ci attendeva!





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