Oggi mi è capitato di leggere un
articolo, sicuramente sponsorizzato, che parlava di un risparmio di 500 milioni
di euro ogni anno “attraverso il cloud computing.” (Istituto di studi danese
Copenhagen Economics).
A questo risparmio economico, per minori
spese di hardware ed elettricità, si deve però aggiungere il migliore servizio
ai cittadini e, non di minore importanza, il rispetto dei vari Codici della
Amministrazioni Digitale, non ultimo, il Digitalia del Governo Monti.
Dicono molti contrari al Cloud: questa
architettura non è sicura perché ci mette in mano a Società private che oggi ci
collaborano e domani potrebbero strozzarci perché controllano i nostri dati e
li depositano su “macchine” collocate chi sa dove.
La risposta è quasi ovvia:
l’architettura Cloud non è proprietà di Google e di IBM o di Microsoft, è un
modo di strutturare la conservazione dei dati e nessuno vieta di costituire una
“private Cloud”, cioè una Cloud privata, allocata e gestita da una entità unica
nazionale.
Pensano, ma non dicono, i molti
possessori locali dei nostri dati: perché devo mettere in comune i “miei” dati
che mi permettono di curare ed alimentare il mio piccolo orticello locale dei
prodotti e servizi informatici?
A parte considerazioni etiche, è giusto
ricordare che i vari CAD che si sono succeduti prevedono che nessuna
Amministrazione Pubblica, centrale o locale, deve chiedere al Cittadino dati
che sono già in possesso di un’altra qualsiasi Amministrazione Pubblica,
centrale o locale che sia.
Forse anche questa “piccola” rivoluzione
servirà a far diventare l’Italia, dopo 150 anni dalla unificazione, una unica
nazione e non un insieme discontinuo di 100 amministrazioni, 20 Regioni, 100
Province, 8.000 comuni, 4.000 server di tutte le dimensioni e un florilegio infinito
di applicazioni software diverse.
Calcolando tutte queste diversità,
forse, quel valore indicato all’inizio dall’Istituto Danese verrebbe ampiamente
superato.
Ma questo è un sogno di un pensatore
ignorante.
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