In occasione della presentazione del rapporto su Cloud e PA
per la Competitività da parte dell’Osservatorio della Università Bocconi, ho
assistito ad un interessante scambio di punti di vista tra tutti gli attori sia
dal lato della domanda che dell’offerta.
In un secondo convegno si è parlato di big ed open data e di
quanto la grande disponibilità di informazioni può essere utile per prendere le
giuste decisioni.
Mentre assistevo a questi eventi ho cominciato ripensare a
come, negli ultimi trenta anni, la tecnologia ha avuto sviluppi impensabili che
hanno influenzato il trattamento delle informazioni, cioè di raccogliere,
elaborare, registrare e fornire informazioni.
Una soluzione ottimale dovrebbe prevedere di raccogliere le
informazioni il più vicino possibile a dove nascono per elaborarle e
registrarle più centralmente possibile per poi fornirle nel modo più semplice e
decentrato a chi deve usarle.
Per esemplificare questa idea di soluzione userò il progetto
della Anagrafe Unica Italiana, adesso allo studio della AGID (Agenzia Italia
Digitale), che prevede la costituzione di un unico punto di raccolta per le
informazioni base di tutti noi italiani che, dovunque saremo, potremmo
consultarle ed usarle.
Oggi tecnicamente possiamo registrare grandi quantità di
dati che si possono trasferire in tempi praticamente indipendenti dalla
distanza.
La soluzione progettuale prevede un “data center”, dove sono registrate le informazioni, un “service center” dove sono si
concentrano tutte le elaborazioni dei dati e numerosi “terminal point” che servano per raccogliere e fornire le
informazioni. Questo progetto oggi è fattibile perché linee di trasmissione
veloci e sicure possono collegare i tre poli funzionali di questo progetto.
Inoltre l’unicità del data center e
del service center permette di
attuare procedure di sicurezza e continuità di servizio largamente
sperimentate.
Da un punto di vista pratico sono due i problemi
strettamente connessi da superare o meglio un solo problema: si maschera il
desiderio di possesso delle informazioni esasperando concetti di sicurezza e
privacy con ragionamenti che sfruttano una scarsa conoscenza delle reali
possibilità degli strumenti tecnici.
In questa corsa ad ostacoli spesso sono talvolta le parole
stesse a “dare una mano” a chi vede i nuovi progetti contrari ai propri
interessi.
La parola cloud è
esemplare: da un punto strettamente tecnico identifica soltanto un “data center”, collocato opportunamente
sul territorio, in grado di registrare grandi quantità di dati in modo sicuro e
capace di offrire una continuità di servizio a chi i dati deve usare cioè il service center ed i terminal point.
Ma nella accezione normale cloud è un qualcosa di vago e
mutevole posto nello spazio sopra di noi e che fa pensare a tutto tranne un
posto sicuro dove depositare le nostre informazioni. E questa accezione è
spesso “cavalcata” da tutti coloro che
vogliono mantenere lo status quo di un digital nazionale spezzettato in 8000 serverini scarsamente sicuri, grandemente
diversificati, inutili ai cittadini ed utili solo a piccole riserve di potere.
Per superare questo problema più politico che pratico forse
è necessaria una campagna di informazione che renda comprensibili, realizzabili
ed economicamente valide le soluzioni basate su data center “cloud”, un numero limitato di “service center” protetti e ben collegabili e stazioni terminali
diffuse per la raccolta e la fornitura delle informazioni.
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