FlavioImpelluso 14 giugno 2020
Come mi apparve estranea Tokyo, eravamo
negli anni ’70, c’era brutto tempo, pioveva. Dall’aeroporto ricordo un
groviglio di arterie molto trafficate, spesso intrecciate con sopraelevate,
sovrappassi e snodi, un incubo, un concentrato di caos atopico, se così si può
definire la sensazione di estraneità e di non appartenenza che mi davano quei
luoghi. Che differenza con la mia Roma, solare e tranquilla,
ancora un po’ provinciale nonostante la dolce vita e sopra tutto dove tutto mi
era familiare, ogni luogo era “casa mia”.
I lampi di Tokyo di cui accennavo:
le fermate della metropolitana che eruttavano in un attimo migliaia di piccoli
giapponesi velocissimi, un formicaio impazzito, e poi con la stessa velocità
sparivano, il marciapiede deserto. Il ristorante ruotante nella notte, non
c’ero mai stato. Dall’albergo non potevi allontanarti troppo perché nelle
strade senza nome - se perdevi il cartoncino con l’indirizzo - ti toccava
andare alla Polizia. Le porte tagliafuoco (di ferro) delle camere che si
chiudevano con un lugubre bong da cappella mortuaria.
Il trasferimento a Osaka con un
treno velocissimo, la visita in testa al treno dove un tachimetro segnava
veramente 300 chilometri all’ora. Tornato al posto vedevo il Fuji alla mia
destra, e ricordo che non mi capacitavo di vederlo sempre lì, nonostante la
velocità del treno ed il tempo che passava. Ma rimaneva sempre lì, bellissimo,
immobile sullo sfondo del cielo: un effetto irreale, certe volte mi chiedo se
era vero.
E poi la svolta, tutto torna nella
norma, mi riconcilio finalmente con un paese che mi aveva sempre attratto, il
tempo rallenta e prende a scorrere morbido ed i miei ritmi coincidono con
quelli della vita locale, non devo più correre dietro agli avvenimenti. Siamo a
Kyoto, la vecchia capitale imperiale, i templi, i giardini, i palazzi
imperiali, i santuari shintoisti, fiori e colori e morbidi gong d’acqua,
atmosfere rarefatte da romanzo dell’800, tutto mi si adatta addosso familiare e
bello come una moglie. Una magia, una meravigliosa magia. Era tutto quello che
avevo sognato sin da piccolo: per me quello era il Giappone, che giornate
stupende.
Alla partenza ci dicono che
dovevamo cambiare rotta per tornare a casa, e “fare la polare”, mi pare perché
uno Stato aveva chiuso il suo spazio aereo, e va bene. Partenza la sera, la
cena, tutti a nanna, credo che i giovani abituati ai wide bodies avrebbero
delle crisi di claustrofobia in un DC-8, un tubo lungo e stretto, zeppo di
posti, che roba. Ad un certo punto della notte movimenti strani, qualche
gridolino ma non d’allarme, e poi tutti svegli ammucchiati uno sull’altro
tentando di guardare fuori dai finestrini. “E’ una aurora boreale” strilla una,
guardo fuori e vorrei essere Leopardi per narrare quello che ho visto.
Be’, dovrete accontentarvi: il
cielo nero pieno di stelle, e sul nero appaiono lunghe pennellate di colore con
sfumature di rosa, poi una gamma di azzurri, celeste, turchese, giada, verde
Nilo, e si muove tutto come una danza, non è fermo come un arcobaleno,
immaginate un mare in cui un gigante colasse dentro tutti i colori del mondo,
poi ci immerge dentro una grande pala e rimescola tutto lentamente, i colori
non vengono assorbiti dal nero ma si accendono splendidi, poi si attenuano e
cambiano, esplodono come fuochi d’artificio muti, si aggregano e si sciolgono,
mutano forma ogni momento, si aggrumano in gorghi e poi si sciolgono in
filamenti chilometrici, io non so descriverlo altrimenti. Alla lontana mi
ricordano certi film di animazione di Walt Disney quando facevano “colare”
sullo schermo i colori a cascata, solo che erano meccanici, colano e basta,
questi invece erano animati da una morbida follia cosmica, forse il caos primordiale
era così. Ero in estasi, scherzi del pensiero, mi venne in mente il “Satiro
danzante”.
Le altre tappe del viaggio,
Anchorage, Copenhagen e Milano sfilano via anonime nella memoria. La sorte ci
aveva offerto la visione del divino, come potrei definire altrimenti quello
spettacolo, ci aveva letteralmente fatto toccare il cielo attraverso il vetro
degli oblò, nessuna cosa, nessuna creazione umana poteva reggere il confronto,
niente aveva più colore. Quei colori.
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