FlavioImpelluso 7 giugno 2020
Certi ricordi rimangono netti nel tempo come foto: il direttore di lancio si tiene agli stipiti del portellone aperto e sporge la testa, la velocità è tale che la parte del volto esposta si deforma come in un film dell’orrore, la bocca arrivata a metà guancia. Cerca di capire perché ci stiamo allontanando dal campo.Erano i
primi anni ’70: che ci facevo lassù, in tuta e stivaletti, impacchettato nelle
cinghie del paracadute e con il caschetto (un po’ ridicolo) di cuoio della II^
guerra mondiale, prestatoci dai militari?
Una
mattana, proprio una mattana. Attratto da sempre dal cielo e dalla possibilità
di poter fluttuare libero nell’aria, scartato l’aliante perché comunque
costretto nella carlinga, la scelta era stata tra parapendio e paracadutismo ed
alla fine il fascino un po’ brutale di quest’ultimo aveva prevalso.
Poi i mesi del corso, l’addestramento e le
esercitazioni. Ricordo in particolare la lunga preparazione per l’atterraggio,
una serie di salti sulla materassina dal ponteggio alto, capriola in avanti
spalla destra e sinistra, capriola indietro destra e sinistra, all’infinito….
Un medico ortopedico che consultai tempo dopo per persistenti dolori alla
schiena si complimentò molto con me per la scelta dello sport praticato.
Il gruppo di allievi era numeroso, tutti ragazzi e
due belle ragazze tostissime, si bevevano giri di campo, salti e flessioni come
niente, mai un fiato o un mugugno, mentre tra noi maschietti…. Il direttore mi
aveva nominato capo corso, nessun merito speciale, era solo che con i miei
trenta e passa anni ero il più vecchio, forse confidava che avrei tenuto a bada
quei selvaggi quando si scatenavano. Cosa che mi guardai bene dal fare, temendo
che quegli energumeni mi gettassero nella fontana del giardino.
Un momento topico fu il salto nel telo alla caserma
dei pompieri di Capannelle, dove salimmo a turno in cima alla torre delle loro
esercitazioni: il direttore era con noi, ci portava sull’orlo, ci calmava,
gambe a squadra e braccia dritte avanti, una gamba in fuori e salti
giù.….. solo che mentre salivi qualcuno
aveva cambiato il telo, prima di salire era un grande telo tondo retto dagli
altri allievi, ma quando ti affacciavi da lassù il grande telo non c’era più,
giuro, era diventato un tondino non più grande di un tappo di birra che non
l’avresti centrato nemmeno con il cane dei ciechi, e sicuro ti saresti
spiattellato fuori del telo sull’asfalto…. Che momenti, sono convinto che in
alcuni casi una fuga discreta non sarebbe inappropriata, anzi.
Insomma ecco perché stavo su quell’aereo: e poco
dopo, sul campo, luce verde, il direttore dice vai, il tuffo, il cuore in gola,
attimo di panico poi qualcosa ti acchiappa e ti tira in su con uno strappo: non
è vero, è che si è aperto l’ombrello ed il brusco arresto della caduta ti dà la
sensazione di risalita. Poi tutto si calma e mi sto librando libero nel cielo,
momenti di estasi pura, indescrivibili. Sotto a sinistra c’è Pisa, tiro la
bretella il mondo gira, eccola, è proprio tutta lì, distinguo la Torre, il
Duomo, il campo…. Mio Dio, che sensazioni, che meraviglia, grazie.
Atterro in piedi, niente capriola, il grande
paracadute militare mi deposita come una piuma, lo raccolgo e come capo corso
aspetto gli altri, li conto poi ci avviamo tutti insieme, una piccola truppa.
Poche occhiate, nessun commento: però le espressioni che vedo sono quelle che
ti sembra di aver fatto una cosa speciale, una cosa importante. Una cosa tutta
nostra. Certo, siamo parà.
👌
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