Flavio Impelluso 10 settembre 2020
Sul gippone faceva un freddo cane, il mezzo era telonato e ci avevano dato dei poncho con cappuccio, ma l’alba africana non sentiva ragioni, eravamo intirizziti. La guida ci avvertì che tra poco saremmo arrivati ad una delle pozze d’acqua del parco, ed avremmo visto qualcosa di veramente speciale, la abbeverata del mattino degli animali. Eravamo ad Etosha, il grande parco nel nord della Namibia, creato dai tedeschi all’inizio del secolo scorso quando la Namibia era una loro colonia: allora era il più grande del mondo, 100.000 kmq, una cosa incredibile. Oddio, non è che ora stia scherzando, perché nonostante la fame di terreni sono riusciti a mantenerne intatti più di 20.000 kmq, cioè più o meno le attuali dimensioni della Lombardia.
Strano paese, la Namibia, siccitoso e in buona parte
desertico, da questo punto di vista per me è la cosa meno “africana” che si
possa immaginare: perché dovete sapere che la “mia” Africa - l’Africa dei sogni
da bambino di quando ancora non c’ero mai stato - era un susseguirsi di grandi
savane dorate e di foreste verdi, di grandi fiumi e grandi laghi. E nella mia
mente è rimasta così anche oggi che ho visto che ci stanno pure i deserti.
Be’, la Namibia è particolare, sta a nord-ovest del Sud
Africa, sull’Atlantico: immaginate un Paese disposto su tre strisce verticali,
ad ovest una fascia desertica (il deserto del Namìb) che corre lungo il mare,
poi a fianco una fascia non desertica ma siccitosa che è la parte centrale, la
più abitata, e ancora a destra un’altra fascia desertica, il deserto del
Kalahari, che arriva in Botswana. Ma allora questo Paese è tutto un deserto, è
brutto? No, è bellissimo, non è quell’Africa di savane e di foreste che
immaginavo io, ma ha ugualmente paesaggi maestosi di bellezza incredibile.
Personalmente, quando ripenso alla Namibia non la associo visivamente
all’Africa, quanto ai ricordi di altri paesi, come la Mongolia nella piana e
più su, sulle montagne, ai massicci dell’Iran.
Ma torniamo a Etosha, il grande parco: la guida ci
spiegava che, dato il clima e la scarsità di piogge, mantenere il parco è un
grosso problema e richiede continui interventi umani, per esempio hanno dovuto
creare artificialmente molte pozze per l’abbeverata degli animali. Che a dirla
così sembrerebbe una porcheria, invece sono fatte molto bene, hanno individuato
nel territorio conche naturali di grandezza e posizione opportuna, poi hanno
approfondito lo scavo e ne hanno cementato il fondo per evitare la dispersione:
con i bordi molto svasati per facilitare la fruizione degli animali, una volta
riempite d’acqua le pozze sembrano dei laghi naturali. Nonostante questi
interventi, continuava la guida, avevano dovuto rinunciare a coccodrilli ed
ippopotami, che avrebbero richiesto investimenti eccessivi (perché avrebbero
dovuto creargli ex-novo l’habitat adatto) e ai bufali africani, che necessitano
di tantissima acqua.
“Adesso zitti, concluse la spiegazione la guida, e non scendete
dal gippone per nessuna ragione”: ci stavamo avvicinando al bordo di una valle
sul cui fondo c’era il laghetto. Il quadro che ci si presentò era strano: tutto
il bordo del vallone, tranne un pezzo relativamente piccolo su cui convergevano
i sentieri dei rangers e dei visitatori, era pieno di animali, forse cento,
forse di più, tanti. Erano immobili e guardavano tutti in giù verso l’acqua,
sembravano messi in posa da un regista, in un grande silenzio innaturale.
Arrivammo sul bordo a motore spento, e guardammo giù
anche noi, a poche decine di metri iniziava l’acqua e lì, sulla riva, quattro
leoncini giocavano come bambini e lottavano tra loro schizzando intorno. A
pochi metri due leonesse, una accovacciata nell’erba che si vedeva solo il
profilo da sfinge ed una che lappava l’acqua, con una bella pancia che sembrava
in attesa, invece era piena di cibo.
“Hanno già fatto colazione, mormorò piano la guida
indicando le pance, ma guardate anche i musi.” Circolarono i binocoli, i musi
dei cuccioli e delle leonesse erano infatti rossi di sangue, la guida cercava
con lo sguardo i resti dell’animale che era servito da pasto, ma l’erba era
alta e non si vedeva. Dall’erba invece emerse un grande cespuglio nero, era la
testa del maschio che si esibì in un enorme sbadiglio, a quella distanza si
vedevano chiaramente le zanne da paura, poi si ridistese pigro nell’erba e
sparì.
Non credo di poter rendere la sensazione che dava la
scena: vicino all’acqua la famiglia dei leoni e sul bordo della valletta,
silenziosi ed immobili, quasi fianco a fianco, zebre, giraffe, orici, gnu,
impala, eland, sciacalli, struzzi, springbok, facoceri, e tanti altri che non
ricordo, tutti in attesa che i leoni lasciassero il campo. Era una situazione
così strana e irreale, da non credere in quello che vedevamo. Forse non era
tanto l’attesa in sé che colpiva, comprensibile considerati i protagonisti,
quanto il silenzio e l’immobilità degli animali in attesa: la guida ci spiegò
che i felini sono molto reattivi al rumore ed al movimento, e che, nonostante
quei leoni fossero palesemente sazi, non era affatto prudente muoversi o fare
rumore nei loro paraggi.
C’era un senso di sospensione indefinibile nell’aria, era
un po’ come se il tempo si fosse fermato e tutti attendessimo qualcosa,
qualcosa che ci liberasse da quella attesa ansiogena, pensate che mi venne in
mente l’espressione allucinata di Kirk Douglas in quel film di guerra, quando
attendeva la sentenza per i suoi soldati, invece non succedeva niente, anche i
leoncini si erano stufati di ruzzare.
Poi qualcuno chiese bisbigliando alla guida se i leoni
sarebbero rimasti lì tutto il giorno: “Naaa, rispose quello rimettendo in moto
piano il gippone, qui ora non c’è più molto da vedere. Tra un po’ il sole
salendo scalderà la conca, allora i leoni se ne andranno a cercare qualche
albero per fare la siesta all’ombra, e gli altri animali scenderanno all’abbeverata”.
E mentre il sole saliva nel cielo e noi ci allontanavamo
verso un altro settore, la vita ricominciava intorno a quel piccolo lago,
secondo i ritmi ed i tempi millenari della natura, e piano piano quel groppo
quasi di angoscia che ci aveva lasciato dentro la vista di quegli animali
immobili in attesa, si sciolse. Ma a sera quella scena era ancora presente in
tutti noi, e ci confidammo che difficilmente l’avremmo dimenticata.
Questo racconto è dedicato a (in ordine alfabetico) Elena, Giulia, Irma, Mirna, Patrizia, Roberto.
Foto di Sergio Giarolo
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