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venerdì 11 settembre 2020

Amarcord: il grande Parco di Etosha-agosto 2019

  Flavio Impelluso                                                           10 settembre 2020

Sul gippone faceva un freddo cane, il mezzo era telonato e ci avevano dato dei poncho con cappuccio, ma l’alba africana non sentiva ragioni, eravamo intirizziti. La guida ci avvertì che tra poco saremmo arrivati ad una delle pozze d’acqua del parco, ed avremmo visto qualcosa di veramente speciale, la abbeverata del mattino degli animali. Eravamo ad Etosha, il grande parco nel nord della Namibia, creato dai tedeschi all’inizio del secolo scorso quando la Namibia era una loro colonia: allora era il più grande del mondo, 100.000 kmq, una cosa incredibile. Oddio, non è che ora stia scherzando, perché nonostante la fame di terreni sono riusciti a mantenerne intatti più di 20.000 kmq, cioè più o meno le attuali dimensioni della Lombardia.

Strano paese, la Namibia, siccitoso e in buona parte desertico, da questo punto di vista per me è la cosa meno “africana” che si possa immaginare: perché dovete sapere che la “mia” Africa - l’Africa dei sogni da bambino di quando ancora non c’ero mai stato - era un susseguirsi di grandi savane dorate e di foreste verdi, di grandi fiumi e grandi laghi. E nella mia mente è rimasta così anche oggi che ho visto che ci stanno pure i deserti.

Be’, la Namibia è particolare, sta a nord-ovest del Sud Africa, sull’Atlantico: immaginate un Paese disposto su tre strisce verticali, ad ovest una fascia desertica (il deserto del Namìb) che corre lungo il mare, poi a fianco una fascia non desertica ma siccitosa che è la parte centrale, la più abitata, e ancora a destra un’altra fascia desertica, il deserto del Kalahari, che arriva in Botswana. Ma allora questo Paese è tutto un deserto, è brutto? No, è bellissimo, non è quell’Africa di savane e di foreste che immaginavo io, ma ha ugualmente paesaggi maestosi di bellezza incredibile. Personalmente, quando ripenso alla Namibia non la associo visivamente all’Africa, quanto ai ricordi di altri paesi, come la Mongolia nella piana e più su, sulle montagne, ai massicci dell’Iran.

Ma torniamo a Etosha, il grande parco: la guida ci spiegava che, dato il clima e la scarsità di piogge, mantenere il parco è un grosso problema e richiede continui interventi umani, per esempio hanno dovuto creare artificialmente molte pozze per l’abbeverata degli animali. Che a dirla così sembrerebbe una porcheria, invece sono fatte molto bene, hanno individuato nel territorio conche naturali di grandezza e posizione opportuna, poi hanno approfondito lo scavo e ne hanno cementato il fondo per evitare la dispersione: con i bordi molto svasati per facilitare la fruizione degli animali, una volta riempite d’acqua le pozze sembrano dei laghi naturali. Nonostante questi interventi, continuava la guida, avevano dovuto rinunciare a coccodrilli ed ippopotami, che avrebbero richiesto investimenti eccessivi (perché avrebbero dovuto creargli ex-novo l’habitat adatto) e ai bufali africani, che necessitano di tantissima acqua.

“Adesso zitti, concluse la spiegazione la guida, e non scendete dal gippone per nessuna ragione”: ci stavamo avvicinando al bordo di una valle sul cui fondo c’era il laghetto. Il quadro che ci si presentò era strano: tutto il bordo del vallone, tranne un pezzo relativamente piccolo su cui convergevano i sentieri dei rangers e dei visitatori, era pieno di animali, forse cento, forse di più, tanti. Erano immobili e guardavano tutti in giù verso l’acqua, sembravano messi in posa da un regista, in un grande silenzio innaturale.

Arrivammo sul bordo a motore spento, e guardammo giù anche noi, a poche decine di metri iniziava l’acqua e lì, sulla riva, quattro leoncini giocavano come bambini e lottavano tra loro schizzando intorno. A pochi metri due leonesse, una accovacciata nell’erba che si vedeva solo il profilo da sfinge ed una che lappava l’acqua, con una bella pancia che sembrava in attesa, invece era piena di cibo.

“Hanno già fatto colazione, mormorò piano la guida indicando le pance, ma guardate anche i musi.” Circolarono i binocoli, i musi dei cuccioli e delle leonesse erano infatti rossi di sangue, la guida cercava con lo sguardo i resti dell’animale che era servito da pasto, ma l’erba era alta e non si vedeva. Dall’erba invece emerse un grande cespuglio nero, era la testa del maschio che si esibì in un enorme sbadiglio, a quella distanza si vedevano chiaramente le zanne da paura, poi si ridistese pigro nell’erba e sparì.

Non credo di poter rendere la sensazione che dava la scena: vicino all’acqua la famiglia dei leoni e sul bordo della valletta, silenziosi ed immobili, quasi fianco a fianco, zebre, giraffe, orici, gnu, impala, eland, sciacalli, struzzi, springbok, facoceri, e tanti altri che non ricordo, tutti in attesa che i leoni lasciassero il campo. Era una situazione così strana e irreale, da non credere in quello che vedevamo. Forse non era tanto l’attesa in sé che colpiva, comprensibile considerati i protagonisti, quanto il silenzio e l’immobilità degli animali in attesa: la guida ci spiegò che i felini sono molto reattivi al rumore ed al movimento, e che, nonostante quei leoni fossero palesemente sazi, non era affatto prudente muoversi o fare rumore nei loro paraggi.

C’era un senso di sospensione indefinibile nell’aria, era un po’ come se il tempo si fosse fermato e tutti attendessimo qualcosa, qualcosa che ci liberasse da quella attesa ansiogena, pensate che mi venne in mente l’espressione allucinata di Kirk Douglas in quel film di guerra, quando attendeva la sentenza per i suoi soldati, invece non succedeva niente, anche i leoncini si erano stufati di ruzzare.

Poi qualcuno chiese bisbigliando alla guida se i leoni sarebbero rimasti lì tutto il giorno: “Naaa, rispose quello rimettendo in moto piano il gippone, qui ora non c’è più molto da vedere. Tra un po’ il sole salendo scalderà la conca, allora i leoni se ne andranno a cercare qualche albero per fare la siesta all’ombra, e gli altri animali scenderanno all’abbeverata”.

E mentre il sole saliva nel cielo e noi ci allontanavamo verso un altro settore, la vita ricominciava intorno a quel piccolo lago, secondo i ritmi ed i tempi millenari della natura, e piano piano quel groppo quasi di angoscia che ci aveva lasciato dentro la vista di quegli animali immobili in attesa, si sciolse. Ma a sera quella scena era ancora presente in tutti noi, e ci confidammo che difficilmente l’avremmo dimenticata.

Questo racconto è dedicato a (in ordine alfabetico) Elena, Giulia, Irma, Mirna, Patrizia, Roberto.

Foto di Sergio Giarolo

 

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