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mercoledì 7 ottobre 2020

Amarcord: Quei Giorni Ad Hong Kong

   Flavio Impelluso                                                          7 ottobre 2020 

Fatico a collegare la Hong Kong dei miei viaggi con quella che vedo in questo periodo alla televisione, le scene della repressione cinese, anche se terribilmente reali, mi sembrano estranee ed incongrue. È vero che la città che conoscevo io dista quasi mezzo secolo da questa, ed è un fatto che non posso ignorare, eppure sull’argomento continuo a vivere una specie di fastidiosa dissociazione logico-temporale. Forse non voglio semplicemente accettare il tempo che passa e soffro come mie le sopraffazioni di un luogo che ricordo sereno.

Negli anni ’70 eravamo ad Hong Kong, mia moglie ed io, con un piccolo gruppo di colleghi dipendenti di compagnie aeree, e ricordo che sguazzavamo liberi per la città come anatre in uno stagno, perché, anche se immersi in un contesto di vita estranea e caotica, noi turisti galleggiavamo a nostro piacimento, tranquilli e sicuri ma non avulsi, anzi partecipi della vitalità che ci circondava. Tra mille altre, una cosa che mi colpì fu il continuo movimento sui marciapiedi, piccole maree umane mobili come risacca, non c’erano persone ferme o capannelli, correvano sempre tutti indaffarati: in realtà non correvano veramente, mi fermai per capire, era come se facessero passi corti ma veloci, anche gli anziani, e dava l’idea di un piccolo trotto rapido.

Mi dicono che oggi Hong Kong si è molto standardizzata ed ha perso parecchio del suo colore, non differisce molto da tante altre megalopoli orientali, enormi grattacieli e grandi alberghi, allora no: pur essendo colonia britannica dalla metà dell’800 era una città totalmente cinese, anche perché la disparità numerica era tale che la presenza britannica – non fosse stato per l’episodio finale – era poco o per nulla percepibile, e questi miei ricordi affondano in un contesto cinese.

Non so invece descrivervi com’era la città in sé, cioè se fosse bella o brutta, perché al di fuori dei luoghi panoramici iconici - il picco, la baia, sicuramente spettacolari - il resto non lo ricordo bene, ma era l’atmosfera, come dicevo, ad essere particolare, era come vivere in una festa continua e “parteciparvi”, anche non facendo niente, magari andando solo per vetrine.

Io in particolare godevo di quell’atmosfera perché rivivevo i luoghi dell’epopea di Dirk Struan, il Tai Pan dei romanzi di James Clavell, e qualche volta mi scoprivo persino a cercare nella folla un volto, o cercavo di capire da dove partivano un secolo prima i clipper di Dirk per portare il thè a Londra: lo so che è una stupidata da ragazzini, ma…. se qualcuno di voi è un appassionato di libri gialli “inglesi”, dica la verità, quando è passato per la prima volta dinanzi al triangolo rotante di Scotland Yard a Londra, non ha sentito dentro un qualcosa di strano, di assurdamente familiare? Be’, Hong Kong mi faceva questo effetto.

Il giorno della partenza il gruppo si scompose come di norma per le ultime spese, in attesa di ricongiungersi in albergo per andare in aeroporto: con mia moglie decidemmo di andare a fare una passeggiata solitaria e romantica per la baia, proposito molto poco realistico in quel caos. Comunque, ad un certo punto ci trovammo ai traghetti e decidemmo di prenderne uno per goderci un’ultima traversata della baia.

Individuato l’imbarcadero per Kowloon, stavamo per salirvi quando ci si avvicina un militare inglese, divisa coloniale eppure elegantissimo, calzoncini al ginocchio e calzettoni, ricordo che era rosso di capelli, coi baffoni, modi molto gentili e sguardo azzurro freddino, ci intercetta, dicevo, si tocca la visiera con un bastoncino che aveva in mano e dice: “Not for you, sir” e ci indica un altro attracco vicino. Un attimo di smarrimento, poi comprendiamo: stavamo per prendere un traghetto dei locali, noi bianchi dovevamo viaggiare su quello a noi riservato. Era l’apartheid.

Ecco, tra i tanti modi in cui quel fine mattinata ad Hong Kong potrebbe essere ricordato - con sdegno postumo per l’apartheid, o di fastidio perché rischiavamo di perdere l’ultima vista della baia, o in qualsiasi altro modo possibile -  io ricordo che lo vissi abbandonandomi completamente al momento, e godendone appieno, gli odori del porto e la confusione, le frotte di cinesi che sembravano non fermarsi mai e trotterellavano  indaffarati, ed il sottofondo del loro cicaleccio, la baia stupenda, la figura dell’ufficiale inglese, l’apartheid, l’atmosfera incantata - amara se volete eppure malinconicamente dolce - della vita in quella colonia britannica……

Ancora oggi, dopo tanti anni, non modifico mai i miei ricordi modellandoli alla luce di più moderne – forse anche socialmente più valide – visioni della vita: i miei ricordi sono quelli, sono legati a quei momenti, sono pezzi di storia. Sono la mia storia. Cose così sono il vero tesoro dei miei viaggi.

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