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sabato 27 marzo 2021

AMARCORD – L’Amazzonia (prima parte)

FlavioImpelluso                                                                      25 marzo 2021

Dalla cabina di guida, in piedi dietro ai piloti, provavo finalmente una sensazione di cui avevo sentito parlare ma non avevo mai sperimentato: volare su un mare verde a perdita d’occhio, solo che sotto non c’era l’acqua ma la chioma degli alberi della foresta amazzonica, che aveva tessuto un tappeto ininterrotto di verde. Il comandante – un simpatico esempio di macho sud americano, abbronzato, baffuto e dal sorriso da reclame, Ray-ban spavaldi sulla fronte – era stato molto gentile, avevo presentato il biglietto da visita di dipendente di compagnia aerea e mi aveva invitato in cabina.

Erano gli anni ’70, partecipavamo ad un viaggio in Colombia organizzato da una grande compagnia aerea sud-americana, che prevedeva una prima settimana di escursioni nella foresta amazzonica, con base a Leticia, ed una seconda sulla costa nord, sul Mar delle Antille, visitando le città storiche. Stavamo appunto andando da Bogotà a Leticia, una tratta bella lunga, circa 1.100 chilometri: il comandante mi spiegava che sorvolando la foresta per lunghi tratti non c’erano punti di riferimento a vista, la vegetazione è così fitta da coprire anche fiumi di una certa importanza, solo i più grandi interrompono la distesa verde.

Ma dove diamine sta Leticia? Be’, trovare Leticia è facile, basta sapere dove cercare: prendete la carta del sud-America, in alto a sinistra c’è la Colombia, andate all’estremo sud della stessa, c’è una lingua di territorio colombiano lunga e stretta che si insinua tra Perù e Brasile, lì in pizzo c’è Leticia. Ed evidentemente la scelta di Leticia in termini di turismo d’avventura sembra perfetta: in piena foresta amazzonica, sulle sponde dell’omonimo fiume, al confine di tre Stati, con tutto quello che ne deriva in termini di avventura. E di traffici. Di ogni tipo.

L’aereo, un bimotore, ronfava tranquillo. Era molto bello, forse era un DC-3, io sono innamorato della linea degli aerei ad elica, e stare lì dietro ai piloti, su quell’aereo vecchio stile con il ron-ron antico e tipico di quei motori mi faceva uno strano effetto, un effetto di dissociazione temporale, straniante ma confortevole: la sensazione di essere trasportato nel passato mi è capitato più volte, quando entro in una particolare sintonia con certi luoghi, e forse è la parte più bella e più ricca dei miei ricordi.

Tutto contribuiva, la dolce e lenta parlata catalana del comandante che capivo quasi tutto, e i passeggeri con i completi di lino bianco ed il panama con la fascetta nera, e le signore con i vestiti come mia mamma quando ero piccolo, insomma mi sentivo come risucchiato indietro nel tempo, una sensazione strana…. vi ricordate Casablanca con quell’atmosfera retrò d’ante-guerra, be’, mi mancava solo il motivo al piano di “play it again, Sam”.


Poi finalmente nel mare verde in alto a sinistra apparve quello che sembrava un pezzo di fettuccia rossa, era la pista di Leticia, il comandante me la indicò e poi
fece una cosa buffissima, azionò a stantuffo una leva che aveva sulla destra del sedile, come dal barbiere, e salì con quello di almeno un palmo, evidentemente in atterraggio voleva vedere meglio. Atterraggio morbido, eravamo arrivati.
Uscimmo da Leticia e ci condussero al residence, sulla riva del Rio delle Amazzoni: una specie di piccolo villaggio-vacanze recintato, molto bello, ovviamente tanto verde dappertutto, con cascate di fiori variopinti sia dentro il residence sia nella foresta incombente intorno. La vegetazione mi colpì subito, anche se all’inizio non capii bene perché, erano sensazioni fugaci che razionalizzai solo dopo: mi accorsi per la prima volta di una cosa strana, e cioè che le mie “cognizioni” del verde non erano legate tanto a quanto visto nelle passeggiate in campagna, quanto ai miei ricordi di pittura, quello che vedevo non mi tornava perché non aveva nulla a che vedere con i paesaggisti inglesi del ‘700 o con gli impressionisti del secolo dopo, perché questi evidentemente erano divenuti nel tempo i miei “riferimenti ottico-mnemonici” di paesaggio rurale. Quello che stavo vedendo era invece un rigoglio strano, primordiale e ignoto, quasi inquietante.

Ma per mia fortuna con il passare dei giorni quell’ammasso verde brutale e scuro, scandito dalle lame di luce violenta che piovevano dall’alto, contrastato dalle enormi cascate di orchidee colorate, divenne più familiare, ed iniziò ad affascinarmi svelando una sua particolarissima armonia: era una cosa nuova per me, stavo scoprendo un nuovo parametro del bello, e camminarci dentro divenne un’esperienza affascinante.

Il residence era composto da 5 o 6 piccoli bungalow, uno più grande per riunirci e per i pasti, una piscina, poi alcune costruzioni (l’amministrazione), e in fondo dei capannoni. La guida ci spiegò che l’accoglienza ai turisti non era il core-business dei proprietari, avevano iniziato da poco, in realtà commerciavano con gli Stati Uniti, inviando caffè, frutta, manufatti ed animali; già, erano in contatto con i maggiori zoo americani.

Giornate indimenticabili, di giorno in giro per la giungla, nei villaggi degli indios, o a visitare le trappole per gli animali, svicolando dagli inviti degli indios di seguirli a caccia di scimmie con le cerbottane, non era per ideologia animalista (allora s’usava poco), era il rifiuto un po’ vigliacco di assistere alla fine di quelle bestiole. E lunghe escursioni sul Rio con le canoe degli indios che poi i puristi dicevano che erano piroghe, praticamente come quelle preistoriche, un tronco scavato: linee bellissime, ma per i miei gusti un po’ troppo basse sull’acqua, stare con il sedere ad un palmo da quell’acqua torbida non era tranquillizzante, e in quel contesto ancor meno, perché navigare su un fiume di cui non vedevo l’altra sponda, tanto era lontana, confesso che insomma….

In una di queste escursioni sul Rio visitammo uno strano allevamento di una specie di anguille elettriche, erano dei serpentoni acquatici lunghi anche un paio di metri che producevano forti scariche elettriche. Le tenevano in vasconi intervallati da passerelle di cemento con corrimani di liane, ci raccomandarono di tenerci aggrappati con molta attenzione, scivolare in uno dei vasconi poteva essere mortale: anche questi animali, spiegò la guida, venivano spediti negli Stati Uniti, negli ospedali. Quando chiesi a che scopo, la guida cambiò discorso, poi qualcuno dello staff si lasciò scappare qualcosa a proposito di esperimenti per praticare l’elettrochoc ai pazienti.
Un giorno mi capitò di fare un incontro veramente strano, perché in un villaggio ho ritrovato l’antenata preistorica delle nostre basiliche (a dire il vero l’avevo già vista anche all’interno delle Filippine), e no, non sono impazzito: mi spiego. Forse vi ricordate che nei villaggi preistorici la casa del capo era più grande delle altre, non solo in quanto casa del capo, ma anche perché doveva ospitare le riunioni degli anziani: ebbene, questo tipo di case (o più propriamente di capanne) nella antica Grecia erano appunto chiamate “basileus oikè”, alla lettera “casa del capo”, e con questo termine, latinizzato in “basilica”, verranno poi chiamati i locali pubblici di raccolta laica  per i romani, poi liturgica per i cristiani.

Ed eccola lì, appena sceso dalla piroga, al centro di un piccolo anfiteatro di capanne piccole e tonde, l’antenata delle nostre basiliche, con tutti i presupposti architettonici espressi in modo elementare: è molto più grande delle altre, è rettangolare invece che tonda, ed ha un divisorio che marca la parte “pubblica” (per le riunioni) da quella privata più interna. E poi c’è già il senso della gerarchia, perché al contrario delle altre capanne che sono posate sulla terra battuta, la basileus oikè amazzonica è sopraelevata con palafitte rispetto alle altre: per entrarvi occorre salire quattro rozzi gradini di legno, tronchi tagliati a mezzo per il lungo con la parte piatta a calpestìo. Allego uno schizzo che potrebbe illustrare meglio quanto descritto, lo so che è brutto ma era un pro-memoria personale buttato giù precariamente con l'aiuto di una monetina

Mi stavo abbandonano alla fantasia, chiedendomi oziosamente perché altri popoli di questo continente sono partiti dalle stesse basi e poi sono decollati, e invece qui ….. e invece niente, perché la guida chiama e mi riporta bruscamente alla realtà, gli corro dietro, non c’è da scherzare, in pochi minuti nella foresta si perde completamente l’orientamento.

Al tramonto, tornando al residence, sentimmo gli indigeni eccitati che gridavano “jaguarà, jaguarà!”, ci spiegarono che avevano catturato un giaguaro, un grande maschio, chissà se era l’ordinazione di uno zoo degli Stati Uniti.

(Fine della prima parte)

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