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giovedì 29 aprile 2021

AMARCORD – l’Amazzonia (seconda parte)

Flavio Impelluso                                                    26 aprile 2021


Al termine della prima parte di questo racconto ci eravamo lasciati quando, tornando al tramonto da una escursione, ci dissero che avevano catturato un giaguaro. Andammo a vederlo: in quel residence nella foresta – anche se in gabbia - era quanto di più lontano dalla civiltà avessi mai visto. Mia moglie ed io non avevamo ancora fatto i safari africani, e le uniche belve viste da vicino erano quelle povere bestie degli zoo, che gli mancava solo il giornale per sembrare pensionati ai giardinetti.
Questo era bellissimo, un grande maschio, la pelliccia sabbia con le macchie nere, la gabbia di rete metallica sembrava non poterlo contenere tanta era la carica esplosiva di quello splendido corpo, eppure era immobile, semi sdraiato su un fianco. Quando avvertì la nostra presenza aprì gli occhi, due fari giallo-azzurri incredibili, inumani perché inespressivi, e quando incrociammo lo sguardo feci un grosso sforzo (con tutta la rete in mezzo) per non fare un salto indietro: paura, la raggelante consapevolezza che chi aveva incrociato quello sguardo nella foresta era probabilmente morto. Ma di questa stupenda bestia ne riparleremo.
Poi c’erano anche cose banali, eppure mi colpivano per la loro estraneità con il nostro mondo: a sera, sui vialetti che congiungevano i vari bungalow arrivavano dal fiume dei grandi rospi, e attendevano immobili. Ad un tratto aprivano la bocca e ci si infilava dentro come un proiettile una cucaracha (che a noi sembrava una specie di cavalletta e che invece ci spiegarono essere una blatta) al termine del suo breve volo.
Non ho mai capito come facessero, perché non è che il rospo balzava  per intercettare la cucaracha al volo, stava fermo, spalancava la bocca, e arrivava il pasto teleguidato: incredibile.
Tanto per la cronaca, per meglio capire l’incongruo dello spettacolo, devo
dire che alcuni rospi erano grandi come i nostri nanetti da giardino, e le prede erano grandi una decina di centimetri e dal carapace durissimo, se in volo ti sbattevano in faccia facevano proprio male.
Le notti erano bellissime, ci riunivamo in piscina sotto quei cieli che noi cittadini ormai ci sogniamo per la eccessiva luminosità, la volta nera zeppa di stelle con quello strano effetto ottico che sembra farle brillare ad intermittenza e così il cielo trema tutto: un rifornimento continuo di daiquiri facilitava le chiacchiere e poi sonni profondi ed indisturbati.
Oddìo, indisturbati, tranne qualche insignificante episodio: la notte che il giaguaro prigioniero si era probabilmente reso conto della sua sorte e si è messo ad urlare, o a piangere, non so, erano suoni strani, non erano ruggiti da leone, erano come brontolii sordi, come un rotolìo di tuoni, e li alternava con urla (non so definirle meglio) che sembravano proprio di un’anima disperata, roba da far accapponare la pelle, ci ha tenuti svegli e terrorizzati per ore.
Oppure la volta che abbiamo trovato sul soffitto sopra il letto un enorme ragno nero peloso, che abbiamo affrontato eroicamente precipitandoci fuori dal bungalow in cerca di aiuto: in soccorso arriva una india giovane e cicciottella, salta agile sul letto e da lì spicca grandi balzi verso il soffitto, finché con una manata getta il mostro sul pavimento, scende e lo uccide a colpi di ciabatta. Poi si rivolge a noi con uno di quei loro bellissimi sorrisi, allargando le braccia come a dire “Visto? Resuelto!”, e se ne va augurandoci la buona notte.
Poi ci fu il pitone, o forse era un boa, un affare mostruoso, retto da quattro indios, di cui ricordo ancora la sensazione strana sul collo e sotto le mani, sì, perché confesso che mi fecero la fotografia di rito con quell’affare sulle spalle, foto che a riguardarla ancora mi imbarazza, con quella espressione stupida da turista contento. Ma vi dicevo dell’impressione tattile, cerco di farmi capire con un esempio: se noi facciamo una carezza ad un cane, ci è familiare la sensazione delle fibre lunghe della sua groppa, ma con quel gigante la cosa era completamente nuova, perché quando quel pesante tubo (pesava 93 chili) di vertebre circolari  si contraeva, sotto la pelle non sentivi un movimento per “il lungo” come una bestia che si stia stiracchiando,  ma lo sentivi contrarsi come in senso concentrico, è qualcosa di talmente diverso da risultare alieno e minaccioso. Da brividi, al solo ricordo.
Un po’ diversa la storia della caccia al caimano, un giorno la guida ci dice che  saremmo  andati a caccia di caimani, tutti affettano una adesione eroica che man mano scema quando ci comunicano le condizioni: si parte col buio, in piroga (si, quella bassa bassa sull’acqua), e si passa la notte bordeggiando lungo le rive del fiume, inoltrandoci nei canneti in attesa di vedere il brillìo degli occhi rossi dei caimani (vero, sono proprio due lumicini rossi), contro cui il cacciatore a prua spara. Non era chiaro perché si dovesse fare di notte, nelle uscite giornaliere in canoa ne avevamo visti parecchi e pure grossi, ma la cosa rimase un mistero: comunque andammo tutti, affettando una tranquillità falsa come Giuda, e passammo buona parte della nottata sciaguattando sul Rio delle Amazzoni. 

Nonostante la luce delle stelle io riuscivo a vedere poco e niente, solo le macchie di vegetazione sembravano un po’ più nere della notte quando ci avvicinavamo a riva, però i poveri lumicini rossi li vidi.
Per il resto una gran tensione inframmezzata dai colpi secchi di fucile. Prendemmo (presero) qualche caimano, questi non erano grandi, potevano essere di un metro e mezzo, ma i cacciatori dicevano che era meglio perché la pelle era ancora morbida e facile da lavorare, quindi più pregiata. Personalmente conclusi che non ero molto portato per la caccia, men che meno di notte e su una piroga.
Be’, caimani a parte, erano stati giorni incredibili, per noi era tutto nuovo, avventuroso ed affascinante, l’ambiente, gli indios, la foresta, gli animali, i suoni e i colori, e gli odori, sì, perché la foresta amazzonica aveva un odore suo, non proprio di profumo francese ma insomma ti ci abitui presto, un misto di umido e di legno e di acqua punteggiato dagli odori dei fiori, a volte gradevoli a volte no. Un mondo a parte.
Poi, come tutto, anche quel bellissimo periodo finì, e ci ritrovammo sull’aereo destinazione Bogotà, poi in pulmino (poco più di 400 chilometri) con sosta a Medellin, dove ancora non si parlava apertamente del terribile “Cartello di Medellin” (o meglio, noi non ne sapevano nulla), che stava diventando uno dei più potenti cartelli del narcotraffico mondiale.  Tanto tempo dopo, ricordando quei giorni, scherzavamo tra noi del gruppetto ipotizzando che chissà, quella volta in quel bar, magari avevamo sorseggiato un caffè accanto al terribile Pablo Escobar! Certo, scherzavamo perché ormai eravamo lontani, in Italia, senno’…..
Poi proseguimmo a nord verso Cartagena, questa tappa un po’ più lunga, circa 650 chilometri fino alla costa, dove visitammo in sequenza delle bellissime cittadine affacciate sul Mar delle Antille. La signora che ci accompagnava, una guida molto brava, ci spiegò che la suddivisione del viaggio in due tronconi (la parte nella foresta e quella sulla costa) era frutto di uno studio su viaggi simili: avevano infatti notato che i giorni nella foresta, per la peculiarità delle situazioni – la novità, la temperatura, le escursioni, le cacce e gli animali, la tensione di certi momenti – provocava nei partecipanti un notevole stress psico-fisico, da taluni avvertito forte e da altri meno, ma che comunque andava riassorbito con alcuni  giorni di totale relax. E così fu.
Delle città della costa ne ricordo le tre maggiori, Cartagena per prima, poi Barranquilla ed infine Santa Marta, tutte fondate dagli spagnoli nel XVI secolo, alcune ancora circondate da mura, con un “quartiere antico” tra i più belli che abbia mai visto, una atmosfera nuova e particolare, piazzette della giusta dimensione umana che ti avvolgevano come una sciarpa morbida, stradine acciottolate e pulite e colorati edifici coloniali, le piccole finestre medioevali, tutto arricchito da quelle splendide cascate di fiori variopinti che da sole fanno festa. Scorci che sembravano illustrazioni dei libri per l’infanzia.
La parte anteriore degli ingressi delle abitazioni più ricche (quelle con el
patio) ti facevano venire la voglia di mollare tutto ed andare a vivere lì, con quello stile incredibile e affascinante che a me ricordava  un po’ il moresco l
asciato in Spagna dai conquistadores.
Una cosa che mi colpì fu la sensazione di vivere in un contesto vero, la presenza invasiva e distorsiva del turismo ricco si avvertiva ancora poco, tutto il contorno – il clima, il cibo, la gente solare e aperta ma non appiccicosa, la parlata caraibica con quello spagnolo un po’ strascicato e cantilenante – sapeva di antico e di bucanieri, ma non suonava falso, anzi mi appariva profondamente genuino, semplice e dignitoso ma non povero. Stranamente, perché sembra non entrarci per nulla e perché allora ero troppo piccolo per ricordare, ma stare lì mi faceva tornare alla mente alcuni racconti di famiglia, quando ricordavano l’atmosfera delle prime gite al mare nel dopo guerra, come fosse un particolare ritmo di vita, il senso di serenità, la quiete ritrovata, l’aria buona e l’acqua limpida.
Spero tanto che non sia cambiato tutto, che non abbiano avuto come da noi amministrazioni moderne e progressiste che hanno distrutto interi quartieri di villette per erigere stupendi palazzoni di edilizia popolare. Spero che siano rimasti un po’ infantili e un po’ conservatori ed abbiano ancora quei loro bellissimi quartieri da fiaba, chissà com’è adesso quella costa.
Gli ultimi giorni trascorsero così in viaggio lungo la costa, giorni lenti ma troppo veloci, spiagge dorate e dolce far niente, mare da Sardegna, snorkeling e noci di cocco piene dell’ormai consueto daiquiri:  
 un cameriere che osò presentarsi con la piña colada fu respinto con improperi e male parole fu respinto con improperi e male parole. Anche dalle signore.

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